Trans Upper Egypt – NO DUB (Maple Dead/My Own Private, 2024)

Cazzo, Roma è un casino anche a non viverci. Nonostante tutto, questo incestuoso rimescolamento mi ha portato addirittura a confondermi all’uscita dei Trans Upper Egypt e del loro nuovo No Dub, convinto fosse un nuovo disco degli Holiday Inn. Poi sono stato corretto da Andrea Marini dei Saba Saba, che la musica buona trascende le piazze e trova punti fermi in ogni dove, in Italia ed all’estero. Comunque siamo qui, a sei anni da Tue, con Bob Junior, Simone Donadini e Leo Non. Tre musicisti che è facile ricollocare anche in altri progetti, visto che oltre ai già citati Holiday Inn parliamo di Rainbow Island e Wow, quindi primizie vere e proprie. È un po’ come a Chicago ormai, con quei bei mischioni di qualche anno fa, quartetti, ottetti, folk che si trasformava in jazz ed in psichedelia. Quella c’è in No Dub e parlando di jazz Pharoah Sanders è da sempre una delle influenze dichiarate della band, ma ci sento anche quella via al post-rock romana dei tempi addietro che furono i Brutopop di La teoria del Frigo Vuoto (Da Killa from Manila you know?). 33 spinge su suoni che sembrano forzati dagli anfratti più bui di Remoria, mentre a Benghe manca soltanto un Tiktiri per trovare la sua collocazione fra musica caraibica, brasiliana ed indiana. La ritmica dei Trans Upper Egypt è morbida, flessuosa e decisa, quasi come essere sculacciati dalla giusta mescola di caucciù. La voce di Leo Neon gioca con echi, lingue e riverberi e permette in qualche modo di instaurare un legame, di trovare una porta d’entrata nel bailamme umido e vischioso portato avanti dai tre. Il primo lato del 33 giri finisce con la struggente e strumentale Out, che sembra ricollegarsi ad un suono d’antan di inizio ’70, fra ascensori per patiboli e sevizie ai paperini. Errors ricomincia, carica di groove elementare ed a basso ritmo, in grado di scaldare il sangue godendoci l’ennesimo comizio del vocalist imbonitore, lo stridio del synth, l’incedere ipnotico di basso e batteria. Itali da la sensazioni di muoversi all’interno di un reattore per poi lasciare libero spazio al salmodiare di Leo, in grado di lanciarci in orbita come ai tempi del Turn On, tune in, drop out di Learyana memoria. Gli stridori di fiato sul finale non fanno altro che rendere più piccante ed impervio questo volo verso luoghi cosmici e solari. Il disco si chiude soltanto dopo sette pezzi, con la conclusione in una River che sembra quasi conoscere il proprio destino, arrotolandosi sulle sue spire placida come un cobra. No Dub è, come tutti i dischi dei Trans Upper Egypt, un bellissimo album.