The Necks – Travel (Northern Spy, 2023)

Necks

Quando in Broken Flower lo scapolo cinquantenne e tombeur de femmes Bill Murray – nei panni del simpatico Don Johnston – si mette in viaggio per gli Stati Uniti alla ricerca del proprio ipotetico figlio mai conosciuto, l’amico e vicino di casa Winston gli prepara appositamente una compilation per il viaggio. Di quella raccolta è soprattutto il jazz etiope screziato lounge di Mulatu Astatke a funzionare, riuscendo a sottolineare amabilmente non solo il panorama, ma anche i mutevoli stati d’animo sollecitati da quest’ultimo.
Riguardo al viaggio, anche gli indimenticabili Kina ci hanno già ben insegnato quanto l’importate non sia l’arrivo ma viverne il percorso. Elementi che danno il senso al titolo dell’ultimo disco degli australiani The Necks, di cui la prima traccia si attaglia perfettamente al discorso sin qui fatto. Mettendo infatti da parte gli abituali percorsi astratti, l’iniziale Signal potrebbe apparire del tutto inaspettata con il basso di Lloyd Swanton a disegnare uno strano ritmo funk perfettamente in sintonia con il suono errante di Astatke. Tony Buck tiene salda la scansione del filo narrativo con la solita e inossidabile personalità, mentre il piano di Chris Abrahams, elegante e austero, fa lentamente emergere quell’astrattismo del trio a cui siamo abituati.
Un desertismo affascinante che aveva fortemente animato il precedente Three e che nella successiva Forming arriva sospeso e avvolto da raffinate progressioni free da apparire come una rilettura da latitudini australi dello spiritualismo di Albert Ayler o John Coltrane. Suggestioni che in Imprinting giocano con lo scarto d’intensità a concettualizzare stavolta un riposo pensoso ma che pure fa parte del percorso. Una bassa frequenza, notturna e tribale, sorniona così a immaginare le possibili nuove conquiste dell’indomani e ben divagata con carezze d’organo e note sparse di basso. Nondimeno, la traccia ricorda quella notevole capacità dei Necks di trasformare la stasi in climax, mantenendone la tensione ben incastonata in un’ossatura calma e falsamente sempre uguale a se stessa.
L’ultima Bloodstream è invece una meta temporanea, come nel finale di Broken Flower, quando Don si rende conto di non aver trovato nulla di ciò che cercava ma solamente un prezioso momento di riflessione, incerto e indefinibile, un attimo in cui non si comprende a quale realtà bisognerebbe credere. L’organo ieratico del brano vive proprio quel momento ma con lo stupore della scoperta, scivolando su droni di elettronica basica con la consapevolezza di poter continuare a godersi il cammino. Il giorno dopo si partirà nuovamente e i tre sono in viaggio da ormai ben 37 anni, sempre con la stessa ineguagliabile classe.