Gli Imperdibili – Vado A Vivere Da Solo (Autoprodotto, 2014)

“Scusa Diego ma a volte mi interrogo sui tuoi gusti”. Forse ha ragione Andrea: ascolto musica di merda. Non mi piacciono i Led Zeppelin, i Beatles mi annoiano e i Guns mi fanno letteralmente cagare, ma poi grido al miracolo se salta fuori una band di scappati di casa come gli Imperdibili. Lo so, stento a crederci persino io, ma non mi va di raccontare palle soltanto per darmi un tono. La musica, dal mio modesto punto di vista, è sempre stata una questione di cuore più che di testa. E se un disco mi piace lo dico e lo scrivo senza problemi. Certo l’EP Vado A Vivere Da Solo (titolo da 10 e lode) – 8 pezzi in 18 minuti (ma soltanto perché la title track ne dura più di 3) – non è certo un capolavoro o un album epocale; belin fin lì ci arrivo persino io.

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Graveyard-Lights-Out

Graveyard – Lights Out (Nuclear Blast/Stranded, 2012)

Al culmine della ripresa delle sonorità tipiche degli anni settanta, la Svezia come sempre detta legge e i Graveyard hanno un ruolo di punta, conquistato col sudore hard rock di Hisingen Blues e le atmosfere più “studiate” e sì, si potrebbe spendere anche l’aggettivo mature, di Light’s Out. Due facce per descrivere una band perfettamente consapevole delle proprie capacità e dei limiti che possono derivare dal genere proposto, e per questo molto attenta ad evitare facili trucchi o scorciatoie da dilettanti prostrati davanti al rivisitato tempio del Rock.

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2000 – 2010: non è successo niente?

Ultimamente imperversa l'irritante campagna mediatica che accompagna l'uscita dell'ultimo libercolo del signor Simon Reynolds. Un critico, che nella musica di questi anni vede solo forme di sublimazione della nostalgia di un certo passato musicale. Pare che chiunque parli o pensi di musica ormai ragioni in termini di "ai miei tempi…", quindi la glorificazione di Reynolds appare quantomeno scontata e rivelatrice di un clamoroso deserto percettivo. Costui è uso sparare citazioni dotte per avvalorare le sue banalità, certo che facendo riferimenti a Fukuyama o a Debord si mette al sicuro da eventuali contraddittori, intanto chi legge di musica è incapace di fare le sue elaborazioni a riguardo. Il guaio è che in linea di massima è vero, soprattutto per buona parte dei critici e lettori italiani.

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L’Ultimo Disco Dei Mohicani, intervista a Maurizio Blatto

Una varia umanità che spazza via qualsiasi noiosa "pippa" da appassionati di musica. La negazione assoluta di qualsiasi nozionismo musicale fatto apposta per escludere i non unti. Una girandola di personaggi tragicomici maledettamente reali: a metà strada tra una canzone di Jannacci e i fumetti di Alan Ford. Questi e decine di altri motivi rendono necessaria la lettura del primo libro di Maurizio Blatto, critico musicale di Rumore e negoziante di uno tra i più importanti negozi di dischi di Torino. Backdoor per l'appunto. Per leggerlo, non è necessario sapere quale accordatura usa Thurston Moore o di che segno zodiacale era Jerry Garcia: per godersi L'Ultimo Disco Dei Mohicani è sufficiente aver voglia di farsi quattro risate e, come in una striscia di Altan, non aver vergogna di mostrare le proprie deformità. Sia chiaro, non sto incensando né Moby Dick e nemmeno un tomo di Simon Reynolds, ma promuovo il diario di bordo di un navigante che annota una città in inevitabile cambiamento, ma che, nei ricordi e nei personaggi di chi narra, continua a pulsare un' italianità che non dovremmo mai dimenticare. Quella che il tempo ci sta togliendo.

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