Mattin – Seize the Means of Complexity (Xong, 2023)

Mattin lavora nell’ottica della plunderohonia ricostituendo due suites di venti minuti l’una con frantumi di video tik tok, hits pop e frammenti vari, cercando dichiaratamente di smuovere l’ascoltatore a riprendere in mano i propri codici binari e di rete. Poi però all’ascolto si resta fossilizzati in un’angustia fantasma per i primi dieci minuti del primo lato, in attesa che questi zapping random prenda possesso della traccia. Il bagno di vacuità è aperto, con gli scarichi aperti sulla nostra plastica di scarto, per un progetto digestivo che mischia sofferenze e maschere, festa e lacrime. Nella seconda parte del disco pare che Mattin abbia acceso un crogiuolo sotto questo insieme, sfruttandone il crepitio per legarlo e trasfigurarlo in una fusione alimentata da un mantice che forse potrebbe realmente essere la forza propulsiva che il basco si aspettava. Sotto poi cresce una forza che ha movenze e sembianze di rettile, nuova chimera che gonfia le proprie spire con i ronzii e le basse frequenze gestite nel maelstrom sonoro. Poi il tutto si cheta, quasi a rendere inteleggibile la frequenza entro le quali siamo andati a finire, mantenendo però una dinamicità di ascolto che ci fa apprezzare l’opera. Quando verso il finale ci sembra di ascoltare dei giocattoli imbizzarriti con una voce salmodica ci preoccupiamo, ma in realtà è tutto parte del piano ordito da Mattin, che ci ha obnubilato la mente e prenderà di noi solo chi al termine lo guarderà negli occhi con un sorriso sardonico sul viso.

Per temerari, rivoluzionari ed amanti del rumore in ogni sua sfumatura di colore.