Che si potrà mai dire di un nuovo album di Kaos?
In primis che suona coerente e compatto, il rapper (ormai passati i 51 anni) sembra quasi riposato, fermo restando la sua fedele voce, graffiante ed acida come al solito. Ma le atmosfere sono variegate, a tratti di un western liquido, a tratti acide, a tratti dritte e basta. C’è una buona parte di DJ Craim in tutto questo (già produttore dell’ultimo Coup de Grace di Kaos, datato 2016) che mette le mani su tutte le tracce eccetti due, curate da Sunday e Kique. C’è della grazia, nei controcanti, nelle chitarre, sintomi di una maturità che può, a tutti gli effetti, giocare con le proprie arme. Lo ammetto, non credevo che dopo anni Kaos riuscire ancora a rimanere al passo e convincente come 20 anni fa ma, così come altri usciti quest’anno, l’esperienza nell’HH paga.
Il contrasto tra la voce è la musica è enorme e riuscito, quasi come posare una mannaia su un divano di pelle. Eleganza e cattiveria, studio, stile.
L’autocentrismo dell’ hip hip funge ancora una volta come terapica valvola di sfogo, dando un’immagine quanto più onesta e carnale possibile.
Da anni, in un percorso che lo ha accompagnato ai Sangue Misto e poi ai Colle Der Fomento (presenti in L’uomo dei sogni), Kaos verga come un amanuense termini come coerenza, stile, fastidio. In Prometeo gode dell’eleganza di Gaber per un ritratto di un mondo che, lontano dalle istantanee, sembra fissato ad olio.
Quarta Parete, insieme ai DSA Commando, più che una Posse Track sembra una riunione di famiglia, tanta è la coesione e la coerenza nella stanza.
Qualcuno potrebbe definire questo disco e Kaos immobile, sempre uguale a se stesso. Preferisco pensare che questo, come gli altri dischi di Kaos siano pezzi della sua carne ed il fatto che voglia condividerli con noi sia sempre un onore ed un piacere. Non è ancora il momento di chiudere la bara con i chiodi, c’è tempo per tutto ed oggi, per me, è tempo di Kaos.