Partiamo da molto tempo fa, 2015 quando, durante una delle mie fallimentari esperienze come tour booking riesco a piazzare a Losanna una data ai Melampus (era Hexagon Gardens, qui passato dalla penna di Stefano Fantino) in coabitazione con Delia Meshir. Dopo sette anni, stregato da Calling the Unknown, sono qui a rimettere insieme i pezzi. È passato una vita e, dalle informazioni in mio possesso, questo è il suo debutto fisico ufficiale (Stories From Vaculty, proprio di quell’anno, rimase infatti nell’aura digitale). Gavetta e palchi a profusione, per una musicista che parte da epigoni base di un certo suono, quei Nick Cave e Polly Jean Harvey che tanto diedero all’intensità in musica ma, complici le lezioni di piano, ha introiettato anche il jazz spirituale di un Pharoah Sanders. Delle prime esperienze in seno al progetto Cheyenne non saprei dirvi ma quel che conferma le buone impressioni è tutto qui, in queste 9 tracce. Filano che è una meraviglia, con una Delia che gestisce al meglio intensità e tremori, forte di una backing band di tutto rispetto che in questo lavoro si compone di batteria, basso, chitarra e sax. Il suono risulta pieno ma mai esagerato, misurato nell’accondiscendere vocalità sgranata e quasi d’antan della cantante. Molte le frecce nel suo arco, ma inizierei dal brano che chiude il lavoro, un colpo diretto al cuore tra voce spettrale e piano The Future Holds My Hand chiude in maniera magnificam spegnendo la luce a 35 minuti abbondanti di carattere e stile. Chapeau.
L’incedere del disco è slegato dal presente, tema che sempre più ricorre nelle soliste donne che maggiormente apprezzo (come datare una Marina Allen? Una Lana del Rey? Una Cristallo?), con una voce gioca a confondersi con le strumentazioni, calde, che la sostengono e giocano con lei. Ci si bea quindi, tra giri di chitarre maggiormente folk e momenti invece di apertura quasi orchestrale (magistrale The Better Half) che si lanciano in cavalcate dai sapori western. Del resto, chiamando un brano Satin Woods, l’autrice sembra proprio descrivere i due mondi entro i quali si muove: ritmi vagamente scentrati, come un vecchio 33 giri imbarcato dai cambi di stagione, incroci di chitarra super classica e sax, enfasi e voce su pellicola. In Dirty Colors il piglio si fa più rock e l’incedere è perfetto, c’ê sinuosità, carattere e ritmo. È solo un episodio, peccato, perché qualche momento più ritmato avrebbe ben rappresentato lo spettro di azione della nostra (presumo che dal vivo possa riservare delle discrete sorprese in questo senso, spero presto di poterne saggiare le bontà), ma il clima resta comunque notturno e deciso anche in Cry Me Something, con una lunghissima coda sulla quale ondeggiare e su una Over The Seasons che da lirica e gotica si trasforma in pichedelia rurale e gutturale. Horseland ci riporta giù tra classicismi giocati al piano, riportandoci là, dove eravamo partiti.