Dan Friel – Factoryland ( Thrill Jockey, 2022 )

Dan Friel è un personaggio abbastanza bizzarro, del quale ho una conoscenza trasversale e sempiterna stima. Lo conobbi anni fa, grazie a quel gioiellino che fu Total Folklore, classe 2013, in seguito al quale recuperai anche il precedente Ghost Town, del 2008. Mi accorgo solo ora però della continuità della sua opera, che inizia nel 2001 e che non accenna a fermarsi (in solo, che ha partecipato anche a progetti come Parts & Labor, Upper Wilds e Squidlaunch). L’ultimo vagito è Factoryland, uscito unicamente su nastro qualche giorno fa. Immagine di copertina che ricorda un Paul Jebanasam colorato e consueta bizzarria all’interno. Dan parte da stilemi pop e rock, li trita, li mixa, li velocizza e li cammuffa, dandoglio poi un aspetto caotico ma fortemente colorato. Diciamo che riesce a veicolare synth-music sulla quale si potrebbero cantare degli anthem oppure un incidente sugli autoscontri fra i Plone e Kid 606. Resistere è inutile (come direbbero i Vogon), passando queste tracce vi ritroverete a muovervi come se in un flipper fosse stata infilata a forza una chewing gum fragola e lime. Colore, rumore, piccole esplosioni gracidanti su tappetti che in qualche modo dovrebbero essere ambientali ma che in realtà sembrano elaborazioni di scafati meccanici a tastierine d’occasione. Rust Clouds in questo senso è impagabile, ma ogni brano in qualche cade in maniera disordinata dietro a questa manovra di brillante disfacimento. Machine Song potrebbe essere stata composta dai Penguin Café Orchestra reincarnati in pennarelli indelebili, The Welder ha un’epicità a 24-bit per citare due titoli, ma tutto il corpo dell’opera rappresenta il vissuto di Dan durante il lockdown, l’isolamento e la quarantena nella sua casa.
Immaginatevi uno scenario buio, visto attraverso gli occhi di un arcobaleno umano sotto ecstasy. Nelle pieghe si percepisce un senso di immobilismo, come di circuiti che friggono senza riuscire ad esprimere la loro essenza, ma il declino di questa operazione è quanto di più gustoso si possa immaginare. In Trash Dunes, maelstrom che passa i 7 minuti, c’è l’incaponirsi di in un bambino che voglia nonostante tempi, condizioni e crediti passare un maledetto schema ad un videogame, una battaglia fra umano e macchina che impazza ubriaca con una sua poetica. Flussi, raggi, climax, effetti sonori, more is more ma con un criterio ed un calibro dato da anni di esperienza. Mai esagerato, mai ridondante, ubriacante quanto basta per farci vacillare, fino alla prossima scarica.
Insert Coin. Severance, 02:11 di pura luce. Game Over.