Il tredicesimo lavoro di Cesare Basile si apre con stridore di metalli, echi e fischi, creando un’atmosfera tesa e intensissima. Trent’anni di ricerca sonora e poetica, un percorso coerente, indipendente e necessario.
C’èNa Casa Rutta A Notu apre le danze. Dopo un minuto splendidamente caliginoso, la musica prende forma, mantenendosi sull’affascinante crinale tra melodia e rumore. La voce pacata e salmodiante di Basile ci racconta una storia di esilio da tutto anche da noi stessi, grazie anche a questa potente immagine : Cè na casa rutta a Notu / Non c’è ddiu ca a teni accura/Non c’è neula ca l’abbirva/ Non c’è chiantu chi la sarva (C’è una casa rotta a Noto/Non c’è Dio che se ne prende cura/Non c’è nuvola che la irriga/Non c’è pianto che la salva). Desolazione assoluta come monito definitivo prima della fine.
Kafr Quasim è il primo brano strumentale e il secondo del disco. Con un tema reiterato e un ritmo rituale, il brano ci dà forza, mentre sediamo attorno a un fuoco tra sterpaglie e sabbia, bruciati dal sole con una sete insaziabile. Questo pezzo ci guida a tentare di ricongiungerci con il nostro io arcaico. È un brano apotropaico, come quelli della sapiente cultura contadina che sta evaporando.
In Ciuri i Cutugnu, le corde stridono e si dilaniano nuovamente. Il brano ha un andamento claudicante e determinato, con la voce di Basile che sembra provenire dalle viscere della terra, illuminando con forza la nostra condizione contemporanea: Unn’è lu me unnè e iu cu sugnu (Dov’è il mio dove e io chi sono).
Prisenti assenti è una macchina del tempo impazzita, dove suoni antichi e contemporanei si fondono in un flusso sonoro travolgente. Come inconsapevoli assuntori di segale cornuta, ci lasciamo sollevare dal suolo, vivendo intensamente le parole che Basile ci sussurra all’orecchio: Tuttu accuminciau e tuttu finiu/I petri si ficinu pinseri (Tutto è cominciato e tutto finito/Le pietre si sono fatte pensieri). Questa musica magicamente si fa l’oggetto di cui parla: erranza, perdita e una flebile speranza danzano in questi solchi.
Il quinto brano strumentale, Bacilicò (basilico), nella sua brevissima durata, sprigiona un intensissimo profumo e apre porte della memoria, proprio come il basilico quando lo tagliamo o l’origano quando lo sbricioliamo tra le dita. Queste essenze ci parlano di assenza, di passato e ci spingono verso il futuro, proprio come fa questa luminosissima composizione.
Caliti Ciatu si apre con una pulsazione, poi le corde ci introducono a una giostra sonora. Ci teniamo stretti al nostro usurato seggiolino mentre tutto gira sempre più veloce. Un organetto sfiatato e rumori provenienti da altri tempi e dimensioni preannunciano qualcosa: come in Eppure bussano alla porta di Buzzati, percepiamo l’arrivo imminente di qualcosa, l’arrivo della piena (La China), e noi restiamo di fronte a una luce tremolante, nell’impossibilità di fare qualsiasi cosa, se non attendere.
U Iornu du signuri si annuncia come un vibrante miraggio sonoro, una Fata Morgana distorta e riverberata all’infinito. Poi, la Mizwad (una cornamusa suonata in Tunisia e Algeria) inizia a suonare, e noi, come per magia, sprofondiamo in uno stato di trance. Ci viene mostrata la sacralità della vita e l’oblio per chi agirà contro di essa. Un magmatico drone accompagna tutto il brano e, sul finale, ci manca il fiato. Di quantu cielu n’ alivu è capaci (Di quanto cielo è capace un ulivo) è l’ultima deflagrante domanda di Basile prima che la Mizwad riprenda a cantare e il flusso sonoro si innalzi. Non possiamo che rimanere basiti e profondamente commossi di fronte a tanta antica consapevolezza.
Cappeddu a Mari chiude questa opera, profondamente terrena e ultraterrena allo stesso tempo. Basile non smette di farci danzare il cuore e la mente. Questa ultima straziante composizione è talmente essenziale e pregna di un’esistenza vissuta a pieno che potrebbe essere stata composta 100 o 200 anni fa e fare parte del canzoniere tradizionale, senza che ce ne accorgessimo, rapiti dalle parole e dalla musica. Nell’ultimo minuto sentiamo voci e suoni presi dalla strada, ed è giusto così, perché questo lavoro di Basile fa della vita poesia, per poi ritornare alla vita.