Soulside – A Brief Moment in the Sun
Cupi, catacombali, sexy.
Si ripresentano i Soulside con un album dopo 33 anni, Cristo.
Il lasso di tempo è quello, importante, per un progetto che avevo conosciuto soltanto di riflesso ma che aveva lanciato semi importanti, un paio tra i quali Circus Lupus, Girls vs Boys e New Wet Kojak.
Alle registrazioni troviamo J Robbins (autore di uno degli album più belli nell’ambito 3 anni fa con Un-Becoming), il tutto sempre su una Dischord Records che definire garanzia di qualità è quasi limitarne l’operato.
Le ambientazioni sono fumose, il tiro è post-punk, con una discreta rabbia e suadenza, marchio di fabbrica di Scott McCloud e dei Soulside tutti. Si sente una maturità espressiva ed un piacere nel suonare e nell’incidere musica che non cambierà il mondo ma che farà sempre girare la testa a chi ci è rimasto sotto negli anni. La sezione ritmica è gonfia e micidiale, Alexis Fleisig e Johnny Temple danno un groove plastico che si lascia corrompere dalle chitarre che sembrano inabissarsi lungo i viali più corruttibili dell’anima. Quando il suono si apre, come in Reconstruction, sembra di vedere scoppiare dei fottuti fuochi d’artificio in piena notta. I pezzi più tirati invece sembrano riprendere un certo suono DC maggiormente strutturato, barricato nelle botti lucide e cupe delle differenti esperienze dei membri. Una maturità artistica che fa il paio con altri elementi dal cuore hardcore che ho avuto il piacere di ascoltare recentemente (Keith Morris uno su tutti). Qui però c’è una bagna alcolica ed un velluto che portano il gioco su di un altro livello, ed il senso di libertà esternato da Scott in alcune interviste si percepisce in ogni istante. I brani si susseguono e mettono in mostra intensità e luci differenti, con Bobby Sullivan e tutta la band a giocare in diversi campionati,gonfiandosi in una 70’s Heroes, volando su differenti registri vocali, quasi spiritati in Resolved, gommosi e da headbanging come in Rediscovery, a pochi isolati da Fu Manchu.
Il penultimo brano dell’album si intitola Survival ed è l’unico ad essere già stato edito, come omaggio digitale su bandcamo nel primo rilancio della band nel 7” stampato nel 2020 (This Ship / Madeleine Said). Si chiude serpeggianti ed innamorati con It’s All About Love, in alto i cuori e gli sguardi lucidi (mi sarà entrata una Whashington DC nell’occhio!).
Nervosi, a loro modo classici ma rimanendo freschi e briosi. Sono delle vecchie lenze infatti gli Hammered Houls. Ignition, Helium, Faith, Ted Leo, Kid Congo e Make Up come parte del curriculum. Alec McKaye alla voce e si sente, alternando singalong a uscite più Hardcore e paludose, come se gli Warmers si fossero caricati sulle spalle le esperienze più aperte che una vita artistica possono portare.
Un’evoluzione nervosa ma salubre, con Mary Timony a dare groove con le corde del suo basso, Chris Wilson a battere le pelli e Mark Cisneros a guidare il timone delle chitarre. Un disco da scatola per chi adora il Dischord sound, ma che potrebbe far felici molti ascoltatori. C’è personalità, energia, maestria negli strumenti, chimica. Che volete di più, di grazia? Pezzi caracollanti come Not Gone, con Alex che alterna registri ballando su delle onde scure, proto speeches dotati di un groove gommoso e lucido (a dimostrazione di come il mash up Wugazi fosse un’ipotesi brillantissima ed i punti in comune fra mondi hardcore ed hip hop moltissimi).
Scatti nervosi da guardarsi alle spalle, fotta a chili e sudore. Diversi brani che colpiscono al cuore, soprattutto nel finale quando i toni si abbassano, con una Abstract City che ci si attacca alla pelle ed una Sounding the Sea che par di vedere i nostri prima dell’alba sul bagnasciuga del Potomac oppure più giù, nella Chesapeake Bay, dolenti e lirici, fino a rientrare dritti sulle sonorità che li fecero crescere 30 (ed anche più) anni fa. Disco bellissimo, se nel prossimo mettessero anche qualche controcanto di Mary potrebbero diventare il mio faro guida Washington nei prossimi anni.