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Costantino Della Gherardesca, da GG Allin al conte Ugolino, quattro chiacchiere con un bravo ragazzo

Perchè intervistare Costantino Della Gherardesca? Per mille ragioni, ma fondamentalmente per due. La prima è che è un intelligente uomo televisivo e questo, oggi come oggi, già basterebbe. La seconda è che un appassionato di rock indipendente e non sto parlando di Verdena o Ministri. Nel vuoto siderale che ammanta la nostra televisione noi abbiamo bisogno di Costantino. Ne abbiamo bisogno forse più di Aldo Busi. Certamente è un personaggio che ancora sta definendo la propria strada e la propria forma, ma la sferragliante ironia caustica (e talvolta tragica) che lo caratterizza, cela al contempo una cultura non indifferente negli ambiti che più ci interessano. Indubbiamente, (e questa è una profezia) è questione di tempo prima che questo maelstrom esca allo scoperto e si coniughi con tutto il resto.

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La Batterie – He Ate A Lamp Now He’s A Fan (Cake And Coffee, 2008)

"Una versione spongebob dei Sonic Youth", e stavolta chiunque abbia inventato questa definizione per il terzetto berlinese un po' c'ha preso. Mai vista una pronuncia inglese con un accento teutonico tanto marcato, forse solo Nico ci andava vicino. Idee bizzarre che vagano tra Deerhoof (Jump And Run), un certo amore per le dissonanze: il chitarrista e singer Pascal Aperdannier con la batteria in evidenza di Anne Paschvoss pronta a sfasciarsi da un momento all'altro e la pianola del fratello Mario, sembrano proprio non soffrire la pressione di dimostrare a tutti i costi le loro capacità tecniche. Ecco sì, certi giri rimandano chiaramente ai primi Pavement (Spring, Milk And Die), sebbene in questo caso c'è forse ancora meno voglia di prendersi sul serio.

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Gabriele Lunati – Nico, Bussando Alle Porte Del Buio (Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2006)

La bionda chanteuse dei Velvet Underground nella loro incarnazione più magica: un'eroina (di nome, di fatto e forse di più), un fiore del male durato l'arco di una stagione. Ma caspita, che stagione. Nico è uno di quei personaggi in cui mito bohemien e semplice degrado si compenetrano, si fondono e ti lasciano lì così, un po' stordito, a pensare contemporaneamente "Cazzo, che figata… ma che disastro, che casino, no non è possibile!".

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Rock And The City – Freak è Davvero Così Chic?

Del baccano gonfiato a steroidi di carta e inchiostro chiamato new (weird) folk si comincia, complice lo scorrere impietoso delle lancette, a tirare le fila e vederne esibita la corda. Per un Devendra Banhart che gioca al raffinato vagabondo su Vogue e disegna custodie di chitarra per Dior (chissà che ne pensano i fantasmi di Bolan e Drake…) e le cinguettanti Coco Rosie attese alle forche caudine del terzo album, quanto compreso nel mezzo mostra finalmente la sua vera identità. Ovverosia quella di un indirizzo stilistico che, nelle sue propaggini più sperimentali (e in larga parte indigeribili), ha come premessa la fuga dall'asfissiante metropoli e una conseguente ricerca di (ri)unione con la natura selvaggia.

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