Non saprei sinceramente rispondere alla domanda se questo sia o meno l’album più bello degli Skull Defekts e credo che sia anche fuorviante domandarselo. Infatti, dietro al moniker c’è un discorso realmente più complesso di un solo momento creativo, vista anche la notevole qualità della cospicua discografia del gruppo. E vuoi anche per le diverse forme espressive praticate nel tempo, nonché per la formazione cangiante che spesso si avvale di collaborazioni o in alcuni casi si restringe a duo, con i soli Joachim Nordwall e Henrik Rylander, nella stesura di un noise drone feroce nel suo minimalismo, mentre altre volte si allarga in una più classica dimensione noise rock, che negli ultimi anni ha visto in pianta stabile Daniel Higgs, singer degli indimenticabili Lungfish, ad arricchire l’intensità del combo svedese con il suo declamare sciamanico.
Al netto di tutto, l’elemento caratterizzante del loro percorso è stata la costante ricerca di un suono minimalista e reiterativo, una tensione continua verso la circolarità ipnotica partendo da idee semplici spinte con determinazione e un’attitudine irremovibile; attestandosi alla fine nel contesto di un post punk rumoroso, esangue eppure intenso, come nell’ottimo Dances In Dreams Of The Known Unknown.
Pratica perseguita anche in questo programmatico capitolo finale che chiude una significativa storia artistica, portando in sé la proficua ma drammatica contraddizione tra passione creativa e l’inevitabilità della sua distruzione. Un disco che gira convintamente attorno a ossessioni ripetitive, dove, rispetto ai precedenti, l’attenzione è focalizzata più sulla messa a punto della forma canzone che sul gusto dell’improvvisazione, loro marchio di fabbrica, che stavolta è trattenuto in favore un suono più composto e rifinito. Della famiglia mancano Higghs, che dona però una bella veste grafica alla raccolta, e il percussionista Jean-Louis Huhta, sostituito da Mariam Wallentin che aggiunge anche la sua affascinante vocalità.
Sono le tonalità corrosive a dare il via al percorso verso la fine, introducendo A Brief History Of Rhythm, Dub, Life + Death, dal titolo tanto predittivo quanto esplicativo, session strumentale di dub liofilizzato e rimpolpato da improvvisazioni tribali e rumorosi accenti penetranti. La successiva Clean Mind è post punk sostenuto ed essenziale, che gioca lapidariamente attorno un centrato quanto scarno giro di basso, mentre Dance ipnotizza col suo groove dritto e le sue armonizzazioni scure e lascive. Si continua con la jam di Slow Storm, una lenta sospensione percussiva con intarsi taglienti a vagare nel cupo vuoto onirico, mentre la voce della Wallentin si fa strumento fino a disperdersi nella nebbia. Powdered Faces, colpisce frontalmente con estenuanti incroci di chitarre sfasate, una danza scheletrica con un’incalzante cadenza vocale a muoversi in superficie. All Thoughts Thought è matematica minima che martella giocando sulla comparsa e scomparsa di dettagli marginali che acquistano di volta in volta significato, subito prima di A Message From The Skull Defekts, potente cavalcata strumentale che ci consegna un messaggio di seducente magnetismo. In fine, The Beauty of Creation and Destruction, il nome lo dice, indica l’ultima distanza da percorrere per arrivare al limite di tutto, tiro implacabile e un sapore drammatico che confessa tutta l’inevitabilità della situazione.
Non so dirvi se questo sia il miglior disco degli Skull Defekts, ma sicuramente è un tassello prezioso della loro discografia, altrettanto bello e convincente al pari dei loro momenti più alti, con il valore aggiunto del saper chiudere una storia con la cosa migliore che si possa fare nella consapevolezza di una fine inevitabile, sfiorandoci alla fine con la sua piccola verità. The beauty of destruction is this…