Kollaps – Until The Day I Die (Cold Spring, 2022)

Il disco inizia con i suoni di quella che pare una sofferente suppurazione. C’è del tormento, dello scarto ed una cancrena che sta avanzando. Sembra che Wade Black, frontman e nome principale dietro il progetto Kollaps, voglia saggiare quanto vicino al punto di non ritorno riesca ad andare, con quelli che sembrano evidenti suoni di scarto e tensione. Questa sensazione, tra il digitale, l’industriale e lo sfacelo rimane anche avanzando con il lavoro, con la malcelata soddisfazione personale di sapere il nostro operare a Lugano, a pochi km da dove sto scrivendo, in evidente stato di brutale distruzione del paesaggio da cartolina imperante. Kollaps crea fastidio, una sorta di sottrazione di romanticismo alla musica bruta, che la rende paradossalmente molto fascinosa. Il disegno sartoriale è quello industriale, dai Nine Inch Nails di Closer al gotico, all’erotismo di un corpo sonoro che perdendo brandelli lascia scoperte le parti migliori di sé. È un disco che può far male, così come farebbe male dell’aceto e della corrente elettrica su una ferita aperta, oppure come una performance di un un dentista senza anestesia. Non è un male necessario, certo, ma come allontanarsene? Gli stessi Andrea Collaro e Giorgio Salmoiraghi, sodali a questo giro di Wade (oltre a James Plotkin e Trepaneringsritualen rispettivamente a master e grafica) sembrano agire in una condizione di costrizione o di abbandono verso un signore oscuro, affascinante e malefico. Macchine in abbandono, frese, corpi malati e bianchicci, stati di agitazione. Percussioni, scosse, urla. L’incessante suono della corrente elettrica ad uscire da fili recisi. Poi, ad un tratto, la title track, voce, chitarra e malessere, coltre anni ’80 della più debosciata e spenta, rivoli di vomito nero agli angoli della bocca. È solo un attimo, prima della fine di un’opera che non potrebbe essere più onesta: il disfacimento del corpo e della psiche, prima della morte. Poi, soltanto vetri rotti, boati, trapani e corrente a sbalzi. Una strana fanfara, che sembra uscire da una TV amplificata, martoriata da quella che sembra una fresa mentre delle percussioni danno un immagine marziale della fine. Una catarsi? Il disfacimento? La morte? Non saprei raccontarvelo ma so che da questo solchi esce una brutale onestà, che li lascia disarmati, affranti e spogli.