Giuseppe Cordaro e Marco Giambrone – Alico (Fluid Audio, 2024)

Un acuto drone di chitarra e un synth che nelle sue prime modulazioni mi riporta ai flauti di Pan di Picnic ad Hanging Rock aprono questo lavoro, siamo subito rapiti nella convinzione di trovarci a vagare in una terra arida e misteriosa.
Queste dieci tracce si muovono in una Sicilia arcaica seguendo il tortuoso percorso del fiume Alico (nome antico del fiume Platani) dalla foce sino all’ultimo, definitivo, salto nel Mediterraneo.
Giuseppe Cordaro e Marco Giambrone con chitarra, field recordings e sintetizzatore modulare ci teletrasportano sulle sponde del fiume, e noi come ipnotizzati da questo suono continuo li seguiamo rapiti da un primordiale istinto. La lunga discesa sonora è accidentata, magmatica, lenta ma inesorabile come quella della primigenia fonte di vita che lotta per chiudere il viaggio e ricominciare da capo.

Della Terra è programmatica di quello che ascolteremo in questo viaggio stupefacente, impressionati dall’inventiva e dal meditativo abbandono che i due musicisti sono riusciti a raggiungere.
Arabona parte con suoni così bassi che sembrano arrivare direttamente dal centro della terra per poi investirci con un muro di chitarre tremolanti, eccoci lì nell’alveo del fiume mentre tutto trema e si sfoca come in una febbrile visione.
Tutto si cheta con Belici dove la pulsazione del modulare ci culla come se, adagiati in una canoa, fossimo trascinati dalla corrente del fiume, tutto ci scorre attorno e la chitarra di Giambrone anch’essa discretamente segue il flusso degli eventi.
In Morella gli strumenti dei due musicisti entrano lentamente in una magica sintonia, poche note che lentamente vanno sommandosi, generando uno spazio sonoro di un altrove, rallentato e piacevolmente torrido. Flumen apre con un lento arpeggio di sintetizzatore, discretamente randomico e ammaliante il pezzo prosegue poi secondo una sua geometria, uno dei più bei pezzi per sintetizzatore sentiti nell’ultimo anno.
In Turvoli torniamo al rumore, alla granulosità del fango che va seccandosi ma anche al suono che va continuamente sfaldandosi e riprendendosi, nell’eterna lotta tra silenzio e rumore. Barbarigo è la settima composizione, andrebbe ascoltata in cuffia per cogliere tutta l’intensità di questo suono, lo spettro sonoro viene utilizzato nella sua massima ampiezza con grande consapevolezza, questa traccia è in un certo senso più grande di sé stessa, occupa sempre più spazio anche quando lo spazio sembra finire, tutto questo accade anche grazie all’esemplare mixing di Giambrone e al mastering di Giuseppe Ielasi.

Garifo si sviluppa su tre livelli che dialogano in maniera virtuosa: modulare, chitarre e field recordings. Creare un pezzo con questi tre ingredienti facendo sì che dialoghino e si esaltino l’un l’altro non è cosa da poco e Garifo è la dimostrazione pratica e poetica di come lo si possa fare ad altissimi livelli. La nona composizione si intitola Stagnone e si apre con un imponente drone per organo, il pensiero associativo mi porta alle improvvisazioni di Battiato sull’organo della cattedrale di Monreale. Grazie agli intensi delay e ai lunghi riverberi di chitarra e sintetizzatore, tutto prende una piega molto kosmische, acquatica, magmatica; siamo inondati dalla luce emanata da questo pezzo che vorremmo non finisse mai.
In Foce Bianca finisce questo iniziatico viaggio verso il mare che ora ci appare accecante, inquietante e invitante allo stesso tempo. È l’arrivo e la ripartenza, tutto qui suona e risuona della felicità di essere finalmente arrivati, ma come sempre accade lentamente si insinua il dubbio che tutto questo sia solo momentaneo, fuggevole, evanescente e noi pronti a intraprendere un nuovo viaggio.

Un disco prezioso, equilibrato ma anche ardito, intelligente e generoso.