Niton – Tiresias (Pulver Und Asche, 2015)

Mi ha fatto spolverare un po’ di mitologia greca il titolo del secondo album dei Niton: Tiresias. Un disco in cui gli opposti si attraggono e si respingono, in cui la band più che dare spazio alla voce preferisce suonare, o meglio documentare un suono quasi fosse una fluida comunicazione non verbale (questi almeno gli intenti del trio). Un suono caratterizzato da improvvisazioni create per lo più con strumenti analogici e con un ampio utilizzo di tastiere abbinato al violoncello e ai loops di Zeno Gabaglio.

 

Il musicista svizzero, si avvale del lavoro di due sound designer (la metto in inglese perchè fa effetto) elettronici, dagli strani pseudonimi: El Toxyque (Enrico Mangone) e Xelius (Luca Martegnani). Il loro apporto risulta in questo caso determinante, dai ritmi subacquei di Päto, alla rarefazione della lunga Bewno in cui la fanno da padrone gli oggetti sonori (oscillatori e theremin pe lo più) di El Toxyque rispetto ai synth di Xelius che ritornano a fare timidamente capolino con l’aliena Had Is The Weakest Point, dai toni quasi ambient. Un lavoro decisamente cerebrale, cupo ed ostico in cui tutto questo ben di dio di apporti sonori sembra eternamente trattenuto, quasi pronto ad una esplosione che in realtà non avverrà mai. Rimangono solamente le avvisaglie, fatte di rintocchi di strumenti a corda o di scricchiolii generati da minuscoli frame sottotraccia (Kalle). Le tastiere di Unsacred Ground, forse uno dei pezzi più notevoli del lotto, creano la giusta eco, come il suono spettrale di un organo dentro una cattedrale deserta. Chiudono il battito oscuro di Moto Ignoto e il deserto spaziale di Kogiidae. Il fascino di Tiresias è fatto di non-musica e di particolari, mentre l’insieme è volutamente cupo e incomprensibile come un salto in un buco nero.