Arab Strap - Elephant Shoe (Go Beat, 1999)

Un freddo suono di batteria elettronica apre questo terzo disco di Arab Strap, come per confermare la loro scelta stilistica: canzoni che stanno a metà tra il cantautorato e le musiche elettroniche più lente e d'atmosfera. Elephant Shoe conferma il gruppo come uno tra i migliori della scena britannica odierna, capace di fornire ancora ottimi elementi, nonostante la stampa locale punti spesso su nomi banali o peggio scadenti; gli Arab Strap si distanziano notevolmente dalla mediocrità attraverso melodie malinconiche sulle quali una voce calda narra storie di vita comune con una sincerità fredda, dura, che contrasta coi suoni creando una commistione originale e affascinante. A conferma sono pezzi come Pro - (Your)Life, dove si parla d'aborto in modo diretto ma sincero e sentimentalmente partecipe ai fatti, oppure Pyjamas, in cui si parla di problemi di coppia; colpisce il sentimento, è l'elemento fondamentale, tutto il disco è centrato su questo cardine; le canzoni sono tutte di considerevole livello e nonostante le atmosfere siano spesso scarne le melodie si ricordano già dal primo ascolto. Arab Strap è un nome da tenere d'occhio, una conferma che in questi anni è dalla Scozia che viene il meglio della musica inglese.

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Arab Strap - The Red Thread (Chemikal Underground, 2001)

Ascoltare tutto d'un fiato un disco degli Arab Strap è sempre un'esperienza bella ma estenuante. Non cambiano neanche un po' il loro suono e quelli qui presenti sono dieci pezzi claustrofobici come solo loro sanno scrivere. Amor Veneris, mio pezzo preferito, ospita al piano Barry Burns dei conterranei Mogwai, e il resto del CD si mantiene su quei ritmi ai limiti della narcolessia. La voce di Moffat è come in passato magnetica e biascicata, specialmente in Love Detective, preso anche come singolo dell'album. Altro capolavoro è il valzerone barocco Haunt Me, posto quasi in chiusura prima della "classica" Turbulence. Belli i testi, come sempre, ma dopo ormai tanti dischi giungo ad una considerazione: perché parlare sempre solo di sesso? Ok, va bene un pezzo ogni tanto, ma veramente i due scozzesi a questo punto mi sembrano anche un po' scarsi di idee...
In ogni caso sono gli unici al mondo a fare questo genere di musica, non sono paragonabili proprio a nessuno e in un panorama di proposte tutte uguali mi sembra veramente un'ottima cosa. Non sarà un disco da ascoltare mentre si va alla spiaggia, ma nelle tristi notti solitarie (o perché no, in dolce compagnia), è il disco che fa al caso nostro. L'importante è essere nel mood giusto, e ultimamente mi ritrovo abbastanza predisposto a certe sonorità che definire crepuscolari è solo un eufemismo.

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Arab Strap - Monday At The Hug & Pint (Chemikal Underground/Audioglobe, 2003)

Ennesimo disco per Arab Strap, il quinto addirittura; gli anni passano (la recensione in cima a questa pagina l'ho scritta quattro anni fa...) e i due danno forse segni di cambiamento? Pochi. Ma come dare torto a Moffat e Middleton? Hanno tempo nei loro progetti solisti per altro, qui sono di casa le loro canzoni magnetiche, la voce di Aidan, le parti elettroniche, i testi incentrati su sesso e sentimenti: tutto ha sempre funzionato a meraviglia, quindi perché cambiare? In verità le novità in questo disco sono maggiori che in passato, segno che anche i due cercano lentamente una strada almeno un filo differente dal passato: archi in quasi tutti i pezzi a zuccherare e dare manforte alle melodie sempre azzeccate e la voce di Aidan più cantata che in passato. Certo che bastano quei cinque o sei pezzi davvero azzeccati per rendere subito la caratura degli Arab Strap: la Mogwaiana Fucking Little Bastards (che titolo delicato, eh?) con esplosione di chitarra decisamente emozionante, più coda acustica registrata in bassissima fedeltà, oppure la dolcissima Who Named The Days?, capace di riconciliarvi con l'universo intero, l'introduzione di cornamuse per Loch Leven (oscar per la rima migliore del disco: "fuck me says he, fuck you says she"), Act Of War con Conor O'Briest alias Bright Eyes e un testo da brivido: "we must have been locked in combat for years, our new hardwood floor was the perfect battleground, so I suppose the bullets were our tears".
Al solito più si ascolta il disco meno si trovano pezzi che si lascerebbero fuori da un ipotetico best of, e viene voglia di vederli ancora una volta dal vivo (per me sarebbe la quarta...), segno che Monday At The Hug & Pint è ancora l'ennesimo risultato pieno...

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