Yonatan Gat – Universalists (Glitterbeat/Tak:Til, 2018)

Al suo secondo disco solista Yonatan Gat si distanzia sempre più dal garage rock che lo ha fatto conoscere con i Monotonix: se già dall’esordio Director aveva ibridato il suono da Jimi Hendrix del surf con musiche da tutto il mondo e approcci più “avanguardisti”, con Universalists il discorso si spinge ancora avanti. Tanto per essere chiari, la verve sonora non viene mai meno e questo si coglie già dall’attacco del disco nella esemplare Cue The Machines: dopo avere ascoltato un sample dei trallallero genovesi (registrati a suo tempo da Alan Lomax) messi in loop in modo molto arguto, gli si affianca il chitarrismo sempre molto personale di Gat, accompagnato da basso (Sergio Sayeg) e batteria (Gal Lazer) fulminanti. Il pezzo iniziale è indicativo del disco, tra elementi raccolti da musiche popolari in giro per il mondo, il suono molto tipico e caratterizzante del musicista e invenzioni sonore che amalgamano il tutto armonicamente senza sconfinare nel terribile effetto “real world” che aborro oppure arrivare a fare “il terzomondista moderno” e risultare stucchevole dopo pochissimo: mantenere il proprio stile e ibridare senza stravolgere o rovinare la fonte orginale è un gioco da maestro che riesce in tutto il disco. Universalists è un susseguirsi di spunti presi dal gamelan, piuttosto che da canzoni tradizionali spagnole, canti degli indiani d’America, ragazze italiane che cantano in un ampli per basso, musica brasiliana, un goccio di Dvořák e chissà cos’altro: c’è pure un bran registrato da Calvin Johnson al Dub Narcotic Studio prima della sua chiusura. Mi ero avvicinato a questo disco con molti pregiudizi ma erano infondati: intelligente, divertente e mai prevedibile, Universalists trova il modo di essere “globale” e non scontato attraverso le uniche armi vincenti possibili in situazioni così al limite, ovvero l’unione di gusto, fantasia e classe.