Il primo album solista di una delle figure più presenti, in molteplici vesti, nel giro indipendente italiano è certamente un evento, che viene onorato con un insolito doppio vinile in cui ogni disco presenta un lato inciso e uno serigrafato: sul primo troviamo pezzi originali, sul secondo cover. Ad accompagnare il musicista sono, di volta in volta, i compagni di tante passate (e future) avventure. L’operazione è ad alto rischio autocelebrazione, e in effetti la cosa non viene del tutto elusa, ma l’album riserva comunque qualche sorpresa. Irrintzi è concepito come un autoritratto che mostri le molteplici facce di Xabier Iriondo, così come le sue fonti d’ispirazione, sacrificando la scorrevolezza dell’ascolto a favore di un percorso a zig-zag che contribuisce a integrarne la discografia e la biografia, andando a colmare alcuni vuoti.
Diversi dei pezzi presenti ci dicono cose risapute, ma che fa piacere risentire; è il caso dell’ottimo avant-blues de Il Cielo Sfondato (con Paolo Tofani alla chitarra sinth e Gianni Mimmo al sax), che evoca i Polvere, di una distortissima Irrintzi, in quota Uncode Duello e della motorheadiana The Hammer, resa weird con l’aiuto di Stefania Pedretti, ormai assidua collaboratrice del nostro, alla voce e Bruno Dorella alle percussioni. Nota è anche la sua passione per Springsteen, tributato in una Reason To Belive (cantata da Paolo Saporiti) che pare un fuzz remix e non sarebbe dispiaciuta ai Suicide (e quindi nemmeno all’autore di Nebraska), ma che richiama inevitabilmente anche gli Afterhours di Milano Circonvallazione Esterna. Sempre alla band milanese, ma al periodo anglofono e più veemente, rimanda la non irresistibile versione di Cold Turkey del Lennon solista e non è un caso che ci troviamo dentro Manuel Agnelli, Giorgio Prette e Roberto Dell’Era. Discorso diverso per la medley fra la Preferirei Piuttosto del geniale e misconosciuto Francesco Currà e Gente Per Bene, Gente Per Male di Lucio Battisti, che rappresenta uno dei picchi della raccolta: ripresa pari pari la prima (fino a far pensare si tratti di un campionamento), il brano battistiano è invece reso in puro stile Shipwreck Bag Show, rivelando il punto di partenza e di ipotetico arrivo di questo progetto, un paradossale pop autoriale, al contempo melodico e ostico; stavolta ad accompagnare Iriondo sono Cristiano Calcagnile alla batteria e Roberto Bertacchini alla voce. Note sono anche le origini basche di Iriondo, ma non si erano mai manifestate in maniera così evidente; qui invece i titoli in lingua euskara contraddistinguono i momenti meno risaputi e più toccanti. Oltre al già citato brano eponimo, ne portano i segni il raga di Elektraren Aurreskua, tutto ritmi acustici (ad opera di Gaizka Sarrasola), field recording ed elettronica e la narrazione ad opera del padre del musicista, accompaganta dal Mahai Metak, di Gernika Eta Bermeo, che fissa per la prima volta su disco le atmosfere che conosciamo dalle esibizioni in solo. Infine, l’inno di lotta dell’indipendentismo basco Itziar En Semea è rivisto ancora una volta a colpi di chitarrismo fuzzoso e slabbrato, con tutta evidenza il suono più presente dell’album, elemento in qualche modo unificante, che non a caso contraddistingue i due migliori progetti di Iriondo, i già citati Uncode Duello e Shipwreck Bag Show. Tirando le somme, Irrintzi è un disco che non ci dice nulla di nuovo, ma lo fa benissimo, annoverando tra l’altro alcuni dei migliori brani mai composti e/o eseguiti (nel caso delle cover) di tutta la carriera di Iriondo.