Non si può dire che Valerio Cosi non ami il rischio: a misurarsi in maniera così scoperta con dei mostri sacri come Florian Fricke, uscirne con le ossa rotte è altamente probabile. Scartando l’ipotesi di riproporre delle versione calligrafiche, resta la possibilità di rispettare lo spirito degli originali e interpretare la forma alla propria maniera oppure tradire entrambi ed uscirsene con qualcosa di completamente diverso, totalmente slegato dal punto di partenza.
Sembra questo il percorso seguito dal musicista pugliese, che edifica i brani in una terra di nessuno, ugualmente lontana dal proprio abituale stile quanto da quello del gruppo tedesco, il cui fantasma rimane relegato sullo sfondo; e credetemi , è un bene. Lo è perché consente un ascolto slegato da rapporti troppo soffocanti che avrebbero probabilmente limitato la creatività dell’autore, ma soprattutto messo l’ascoltatore nel continuo dovere di far confronti con gli originali. Qui il problema non si pone, dato che Cosi affronta la materia con lo spirito del remixatore radicale, facendo affiorare di tanto in tanto qualche legame con i brani di partenza, ma tirando dritto per la sua strada: più “liberamente tratto dall’opera dei Popol Vuh” che Plays… insomma. Venendo finalmente alla musica, i cinque brani si presentano come il lavoro più accessibile del nostro: tutti molto ritmati -ad eccezione dell’apertura di Aguirre, vibrante e suadente- sfoggiano un suono denso e insolitamente rockeggiante, con momenti autenticamente trascinanti, vedasi le ritmiche serrate a cui si sovrappongono prima sax e poi la voce in un’Hosianna Mantra a tratti industrial rock o il riuscito space-mantra di Train Through Time. Più complesse ma ugualmente avvincenti sono le stratificazioni free-freak di Vuh e la conclusiva Affenstunde, che inizialmente pare aderire al modello, ma poi lo tradisce a forza di ritmiche simil-techno e rumori assortiti. Per una volta, un album di cover (si fa per dire…) che non rappresenta un semplice divertissement nella discografia di un artista.