Ho aspettato a lungo per ascoltare questo disco degli Uniform. Meglio, credevo di averlo fatto dopo aver letto una recensione sul lavoro, ma ricontrollando in fase di scrittura non sono passati che due mesi e poco più, un’eternità in effetti nell’ambito della critica musicale.
Ci sono tornato senza mai averli ascoltati, ma lo scritto del tempo mi aveva lasciato un sentore, un’aria di necessità. Qualche tempo dopo poi, intervistando il bassista dei Chat Pile, ho scoperto di come il loro ultimo lavoro è stato prodotto dal loro chitarrista, Ben Greenberg, già attivo nei The Men e negli Zs, altra roba ottima dei bassifondi che avevo apprezzato.
Quindi eccoci, con un’American Standard che è un’orda di 21 minuti di noise e post-hardcore a sostegno del latrare rabbioso di Michael Berdan nella sua lotta contro la bulimia. Musica uguale a se stessa, pesante e slabbrata, roba che potrei ascoltare per ora nella condizione giusta, tanto più che dopo il sedicesimo minuto si trasforma letteralmente nelle urla di un marinaio incazzato, batteria dritta ed una sorta di luce che passa da sotto la porta dello sgabuzzino nel quale siamo rinchiusi pe rimandare sicuramente al macero tutto quanto.
La domanda è ora: come continuare tutto questo? Risposta: urlando in un brano titolato This Is Not A Prayer, musica feroce e triggerata ma con una sensazione di leggerezza e di luce, forse nel taglio di alcuni suoni percussivi che rimembrano di ambienti caldi e caraibici, chi lo sa, sono comunque pensieri fatti mentre intorno a noi tutto crolla quindi lasciano sicuramente il tempo che trovano.
Il lavoro dei due batteristi (Michael Sharp e Michael Blume) è impressionante, sembra di sentire i Sepultura di Roots segregati da un pazzo in un’acciaieria. Clemency inizia come se i suoni si stessero librando verso ouna sorta di aereo shoegaze ma è solo un’istante, che le urla marziali di Berdan riportino tutto al livello di guardia, in un’eterna lotta con sé stessi. Nell’articolazione del lavoro sono stati coinvolti anche due scrittori, B.R. Yaeger e Maggie Siebert, entrambi nell’ambito di un orrore che può avere molte forme e che forse gli Uniform stanno cercando di scacciare. In Permanent Embrace il tutto trascende in una forma violenta e primordiale di rock’n’roll, quando le radici di questo si riconoscono distintivamente nel macello rumoroso utilizzato degli Unifrom, con anche un filo di aria metal che trasale dall’epicità dietro alle spalle.
Un disco intrigante e bizzarro, che ci mostra diverse facce di sé e che riesce comunque a rimanere enigmatico e cattivo al punto giusto.