Un soffio dietro l’altro, conversazione con Fabio Mina.

Dopo l’ascolto del disco di Fabio Mina, nuova produzione di una Okum sempre più chirurgica nelle sue uscite, decidiamo di approfondire il dialogo con il flautista (che scoprì residente fra Rimini e Riccione, lontano dai luoghi che associavo a lui) per capire come si ponga all’interno della musica odierna e delle sue dinamiche. Questo il resoconto della nostra chiacchiera.

Mi sono ascoltato più volte il disco, che mi è piaciuto e che ho trovato stia avendo una buona ridondanza mediatica, come sta andando?

Son contento, sta andando bene e ne siamo contenti!

Vivo inizia con un battito che potremmo associare al nostro cuore, quasi una dichiarazione di intenti e di resistenza, corrente con la citazione del titolo che prende ispirazione da Ski Um Talk. Ma chi è Fabio Mina?Come sei arrivato al flauto, ad Okum ed a questo disco? Da dove arrivi?

Ho iniziato a suonare molto piccolo, all’età delle medie, subito con il flauto traverso. Io sono sempre stato molto appassionato di natura, di mondo animale. Quando mi chiedevano che cosa avrei voluto fare da grande rispondevo sempre l’etologo e poter stare in mezzo alla natura a fare gli appostamenti. Un giorno sentii i miei genitori guardare un film, L’ultima tentazione di Cristo e nella colonna sonora di Peter Gabriel sentii un flauto ney, uno strumento tradizionale turco, che mi colpii tantissimo a livello istintivo, non so bene descrivere, ma fu una sensazione fisica e profonda al tempo stesso che ricordo ancora bene. Senz’altro il legame forte del flauto con la natura è potente ed è stata una delle ragioni che mi ha portato da bambino a scegliere questo strumento. Al tempo stesso, però, quell’immagine rischia di essere parte del cliché che ha penalizzato il flauto, descrivendo unicamente come strumento bucolico, svolazzante, leggero (colpevoli i flautisti sopratutto!). Mi interessano invece molto i contrasti dentro al suono di questo strumento, la sua voce lacerante, ma profonda, i legati liquidi, gli staccati ritmici.le sfumature nascoste. Ho impiegato tanto tempo (e ancora è parte della mia pratica quotidiana) a rinforzare il suono, cercare di portare il volume delle note basse (di natura più deboli nel flauto) al limite.

Partendo dal flauto, che per me è la traumatica esperienza scolastica, pensavo fosse una naturale evoluzione di quell’ambiente, mentre tu mi parli di stimoli esterni artistici come input.

Sì, per me ha detto molto quel ricordo e comunque qualcosa di molto istintivo, veramente un suono che mi ha colpito e da lì son partito. Chiaramente all’inizio si comincia con un percorso canonico, quindi legato alla musica classica ed al conservatorio però parallelamente mi è sempre interessata soprattutto l’improvvisazione, quella è stata ed è tutt’ora uno dei linguaggi che mi catturano di più e che sento più mio e che mi riesce meglio. Mi consente anche di veicolare dei messaggi che sento in un modo molto sincero e con pochi filtri.

Un’altra domanda sarebbe stata proprio relativa alla formazione strumentale classica. Tu sei diventato il Fabio Mina odierno con una dose di studio ed immagino una dose di istinto, immaginazione e sperimentazione. Ma a livello di flauto è stata piuttosto una crescita solitaria o avevi comunque dei riferimenti stilistici sullo strumento?

Guarda, non è per presunzione ma come riferimenti sullo strumento ne ho avuto veramente pochi, flautisti storici che mi hanno influenzato non saprei citartene tanti ma ci sono stati molti altri strumentisti veramente importanti, anche sul modo di suonare lo stesso flauto. Ascoltando altri strumenti simili al flauto sono cambiato, tutta la musica per Shakuhachi, il flauto tradizionale giapponese, il modo giapponese di lavorare sul suono anche simbolicamente. Connettendo la musica alla spiritualità ed alla quotidianità, fino ad arrivare a lavorare sul suono, sul soffio e sull’utilizzo dei respiri, una cosa che mi è piaciuta molto ad esempio è che quando studi al conservatorio sembra quasi un difetto respirare in mezzo alle frasi perché le interrompi e quindi ti chiedono di trattenerlo aumentando la capacità polmonare. In Giappone invece c’è questa valutazione del suonatore di Shakuhachi per come respira, il respiro fa parte della frase musicale, un po’ il discorso del vuoto e del pieno, dell’estetica in generale. Quella musica mi ha colpito tantissimo ma i musicisti che mi hanno influenzato sono stati altri.

Beh, a questo punto non posso non chiederti un paio di nomi, sono parecchio curioso!

Quello che più mi ha stregato allora è continua a farlo adesso sicuramente è John Coltrane per il modo globale e totale di vivere la musica, per il suo suono così potente e così vicino alla voce proprio, mi ha sconvolto veramente. Poi c’è stato in seguito tutto quel mondo lì negli anni ‘60 soprattutto ed anche i ‘70: Pharaoah Sanders, Alice Coltrane, poi anche il jazz nordico, Jan Garbarek e soprattutto nella fase successiva John Hassell è stato uno dei miei fari.

Studi classici, parecchi jazzisti: ma se la vicina di casa o la collega di lavoro ti chiedessero, legittimamente: “Fabio, ma che musica fai?”, cosa risponderesti?

Ecco, questo non saprei…diciamo che adesso ultimamente mi sento molto vicino ed uso con molta più serenità il termine trip-hop perché comunque mi ritrovo molto (a parte che è anche l’altra mia passione, quel movimento negli anni ‘90, il modo di lavorare coi campionamenti è di raccontare le cose, anche di combinare pezzi collaborando fra di loro, c’era una cosa che sentivo interessante anche senza averla vissuta) e quindi a volte posso citarlo così come l’ambient col rischio di esser frainteso perché per me rimane legato a Brian Eno ed a chi ha fatto le cose con un certo modo e con una certa profondità, senza le derive da musica eterea con poca sostanza. Poi essendoci molta improvvisazione non posso fare a meno di parlarne in senso lato come composizione estemporanea, di lasciarti andare rimanendo comunque rigido, anche perché sull’impero ci sono molti luoghi comuni che dividono. Non è un flusso da attraversare facendo finta di niente, l’ aggettivo che si può solo osare alla improvvisazione è proprio vigile, quindi attento. Non c’è differenza fra quello che senti dentro e quello che succede intorno a te, se sei in grado di mettere insieme quelle sue cose l’improvvisazione viene bene insomma.


Fabio Mina – Vivo

Esci per Okum, che in tre produzioni ha fatto tre cosa bellissime e che quindi sta diventando marchio per il quale prestare attenzione. Secondo te ha senso ancora legarsi ad un marchio come quello di un’etichetta?

Mah, io ti devo dire, onestamente, di aver pensato anch’io questa cosa. Più di una volta ho pensato di poterci registrare con ottimi risultati, rimanendo soddisfatti ed avendo una resa eccellente a volte. Quel che a me mancava e senza esagerare pensavo legato al passato irraggiungibile, è proprio la relazione che si viene a creare con il produttore. Quella cosa che da solo non c’è: però è anche difficile trovare qualcuno così, non è il mio primo disco e nelle altre volte non è successo questo. Con Manuel Volpe ho trovato veramente una persona con la quale mi sono sentito nei racconti delle nascite dei dischi passati che leggevo, come collaborazioni fra musicisti e produttori. Manuel poi è anche musicista e questo aiuta, però il senso secondo me di quel che dicevi c’è e dovrebbe tornare facendo comunità, riuscendo a costruire piccole comunità come credo stia succedendo ad Okum. Allora sì si crea qualcosa di riconoscibile e che non ha solo a che fare solo con la musica ma molto con la relazione. Questo anche rispetto anche al lavoro con altri musicisti bravissimi e tecnici, però poi quel che cerco non c’entra sempre solo con la musica.

Legato a questo, se dovessi citare delle etichette importanti per la tua crescita come musicista e come ascoltatore a Che famiglie ti legheresti?

Ce ne sono di svariate perché partire dalla stratosferica ECM però ci sono anche case piccole, come la norvegese Oubro che mi piace molto, la Constellation ed anche la Erased Tapes, così come Ninja Tune e Glitterbeat.

Tutte etichette dove è difficile sbagliare prendendo una qualunque delle loro uscite in realtà. Com’è andato il lavoro con Manuel? Avevi già un’idea in mente e lui ti ha aiutato ad esprimerla oppure avete creato un mondo ex-novo?

Avevo elaborato molte idee precedenti al nostro incontro e già dal vivo portavo qualcosa che si avvicinava al materiale che è finito sul disco. Diciamo che quel che desideravo era uscire un pochino da alcune scatole, nicchie di genere nelle quali, forse per mia responsabilità, mi ero chiuso negli anni, moto legate ad un certo tipo di contemporanea e di mondo jazzistico trasversale ma mai abbastanza da permetterti una vera libertà. Quindi mi è capitato di fare qualche data negli ultimi anni in club o situazione dove prima non mi vedevo, mi trovavo magari ad essere l’unico all’interno di un festival con una strumentazione simile.sentire questo tipo di energia che si creava mi ha dato il desiderio di andare ancor più in direzione elettronica e con beats che richiamassero un mondo diverso da quello che avevo finora attraversato. Manuel questa cosa l’aveva già capita prima che io glie lo dicessi ed infatti ci siamo incontrati proprio su questa strada, l’ha accolta perché sentiva che il mio desiderio era una strada giusta da esplorare. Ci siamo visti così ed avevo preparato del materiale ma soprattutto avevo la voglia di lavorare insieme a lui soprattutto per la parte legata ai campionamenti, che è una pratica che mi intriga tantissimo, poterlo elaborare o dare a Manuel elementi che tagliava e componeva, rimandandomeli. Io lavoro molto con le audiocassette, mi registro al volo, taglio e faccio loop che convertivo in digitale per mandarglieli, per sentirli elaborati da lui. C’è stato poi un percorso insieme ed è stato bello poter lavorare così.

Si sente una bella energia, una bella chimica, una situazione crestiva e produttiva bella, fattore molto intrigante e che crea un bellissimo mood all’ascolto. Sulla definizione della tua musica, questa difficoltà di incasellarti è un’arma a doppio taglio?
Hai avuto difficoltà di comprensione da parte degli addetti al lavoro?

Hai ragione, mi è successo tantissime volte, anche recentemente, potrei farti una carrellata di esempi anche poco piacevoli che però ho sempre avuto con gli organizzatori, mai con le persone. Anzi, secondo me, quel che devono capire molti organizzatori è che questa trasversalità diventa un problema finché non si abbattono questi funzionamenti a generi. Se festival e serate fossero studiate a livello tematico o di intenzione non avremmo questo problema. Spesso mi son trovato ad esser considerato troppo difficile per un contesto frivolo, mentre sono quasi pop in un festival di contemporanea.

È vero che l’ascoltatore, il pubblico non ha questi dubbi: piaci o non piaci. Sono fisime legate al bisogno di struttura…

Certo, ma pensando alla musica del passato che ci piace, aveva difficoltà a collocarsi ma oggi sarebbe impossibile. All’Isola di Wight trovavi Miles Davis con le rockstar più grandi, quel che li univa era altro. Quando leggi che Patti Smith si vedeva con Allen Ginsberg ad ascoltare John Coltrane ed i Doors, o gli stessi Doors che dal vivo suonavano Afro Blue che era ripresa anche da John Coltrane. C’era un’energia che sorpassava i generi.

Che è il bello della musica! Stamattina ascoltavo un brano di Laura Agnusdei ed ad un certo punto mi son detto che ricordava Iron Man dei Black Sabbath, così son passato a loro e mi sono immaginato lei aggiungersi alla formazione, idea impensabile in un festival ma che sarebbe geniale. Quello mi piacerebbe, ma ammetto che potrebbe essere una difficoltà. Ho sentito il live dei Putan Club registrato ad un festival pesante come l’Amplifest e pur non avendo nulla a che fare con quel contesto ne escono benissimo. I Generi non mi hanno mai convinto…

Eh, eh, eh, nemmeno a me! Se poi pensi al genere jazz siamo proprio alla follia: gli artisti stessi odiavano a morte la nomea, è un nome dato dai bianchi per una musica suonata dai neri. Se negli anni guardiamo quante persone abbiano detto questo non è jazz a gente che la storia del jazz l’ha rivoluzionata potremmo fare notte. Quando qualcuno metteva una tappa nuova già era considerato fuori. John Coltrane disse quindi di chiamarla a New Thing

I collegamenti nel jazz in effetti possono essere molto labili! Cambiando completamente campo invece: quanto suoni abitualmente? Che tipo di allenamento, dedizione e costanza dai al flauto?

Eh, allora, devo dirti che da quando sono babbo è calata!! Vertiginosamente, ma sesso mia figlia ha quasi nove anni e mi sono ripreso. L’importante comunque è che ci sia una pratica quotidiana, non importa di quante ore ma ci deve essere, così come una pratica fisica. L’esercizio fisico incide tantissimo sul suonare uno strumento faticosissimo come il flauto traverso, ci vuole un quantitativo d’aria immenso. Nel flauto traverso solo un quarto del fiato emesso diventa suono per la grande dispersione dello strumento, poi c’è la parte d’elettronica dal vivo che ha bisogno anch’essa di pratica. È molto facile farsi prendere dall’euforia vedendo le lucette ed i suoni incredibili ma è un esercizio riuscire a capire come dosarla. Cerco di ritagliarmi l’ameno 1-2 ore al giorno di suono, sempre.

Tua figlia come reagisce alla tua musica? Mia figlia è coetanea della tua, a volte reagisce bene agli stimoli ed a volte mi rimbalza completamente. A te come va?

Mia figlia mi riempie di entusiasmo perché da sempre ha cominciato ad utilizzare la voce. Lei gioca e giocando canta, quindi con discrezione ho provato a guidarla, con molto rispetto, senza fare lezioni o solfeggio, però a livello di training dell’orecchio è molto ricettiva. È appassionatissima di Bjork, adora i suoi video, così ci colleghiamo vedendo modi di usare la voce particolari. Spesso facciamo cose insieme per divertimento, ho anche iniziato a registrarla e mi piace farla riascoltare, le faccio usare i pedalini…anche come ascolti sto vivendo insieme a lei tutta la dinamica del nostro mondo. Il bombardamento unilaterale delle stesse cose: se tu la togli da lì rischi di diventare uno snob con la puzza sotto al naso, un disadattato oppure, ed è la cosa alla quale voglio lavorare, qualcuno con una personalità che però non manchi mai di rispetto agli altri, guardando dalle alto in basso chi ascolta musica di merda. A volte è solo una questione di fortuna, per fare un esperimento equo dovrei bombardarti con robaccia e con musica di un certo livello. Invece le altre cose le devo ascoltare a mezzanotte su Battiti o far fatica a trovarle…questo lo vedo giorno per giorno, mi dice che le fanno ascoltare Caramello di Elettra Lamborghini ed io…si fa fatica!!

Capisco, l’importante è darle gli strumenti per accedere…sapendo chi è Bjork ed ascoltando determinate cose oltre ad Elettra Lamborghini capisce che il mondo non finisce lì, mia figlia si ascolta la trap ma sa che esistono altri suoni che le faccio ascoltare e che riesce ad apprezzare. Toccherà vedere come crescerà la loro generazione!
Domanda di marketing: nel comunicato stampa, ovviamente sono citati Andre3000 e Shabaka Hutchkinson. Il fatto che due big abbiano dato luce e risalto ad uno strumento come il flauto ha un effetto sulla visione del flautista o non è cambiato nulla?

Forse è ancora…cioè sì, direi di sì. Ovviamente spero che poi la cosa scavi un attimino di più, perché ancora è un po’ presto, però diciamo che la scelta di Shabaka è molto forte. All’apice, nel momento in cui Floating Points lo ha chiamato a sostituire Pharoah Sanders nel disco meraviglioso che ha fatto con l’orchestra. Shabaka annuncia basta, annuncia che non suonerà più il sax facendo anche un video dove lo abbandona ai piedi di un albero ed inizia a suonare il flauto e lo Shakuhachi. Per me è stata una cosa molto forte e mi ha fatto immensamente piacere e diciamo che un po’ temo che quello stereotipo di cui ti parlavo legato al flauto, con quello che è anche la loro modalità, adesso senza fare critiche, però credo che quella cosa non venga scalfita. Suonano tantissimo i flauti etnici, con bordoni molto lunghi e sonorità molto eteree, che mi ricordano gli esperimenti che faceva Paul Horn negli anni ‘70 o cose insomma, che suonava Robert Fripp con flautisti o sassofonisti. Insomma, da una parte sono molto felice e da una parte vedo che questa cosa potrà riaprire discorsi per i flauti e non chiudere porte a prescindere come mi è capitato più volte, di essere scartato perché flautista. Due personalità come loro possono aiutare molto, dall’altra temo che a livello musicale, per quel che stanno facendo loro si fatichi ad uscire da quello stereotipo di suono di flauto, chiaramente stanno facendo, ad esempio nell’ultimo ep di Shabaka ci sono queste spoken words, queste voci, c’è sempre un messaggio dietro ed è una cosa importantissima. L’ideale romantico l’art pour l’art credo che adesso sia una cosa proprio da evitare, adesso come adesso chi ha la possibilità di creare artisticamente e di farsi ascoltare anche solo da quattro persone deve veicolare qualcosa, con tutto quel che succede fra dolore, speranze ed aspettative qualcosa al musica deve veicolare, senza farla troppo lunga ed in questo ad esempio mi sembra Shabaka sia molto attivo e questo accostamento che opera possano essere un esempio molto forte.

Mi sono accorto che in questi anni, anche in Italia, c’è una consapevolezza nell’utilizzare la propria voce da parte dei musicisti per lanciare dei messaggi. Poi non è che il pubblico debba ingoiare tutto ma abbia la possibilità di ascoltare mi sembra pratica che ritorna con buoni risultati.
A livello di realtà e di suono ci sono secondo te musicisti giovani, dei prospetti che dovremmo andare a cercare ed ad ascoltare?

Ma si, mi capita spesso anche casualmente o di rimbalzo di trovare giovani veramente bravi, anche in cosa anche molto diverse apparentemente da quel che faccio io. Ci sono gruppi nella scena hip-hop internazionale che amo moltissimo, perché mischiano e trattano il suono e le voci in maniera molto interessante. Ad esempio c’è questa coppia che mi piace tantissimo, una ragazza nativa americana ed un ragazzo, si chiamano Throne, avevo fatto una piccola ricerca sugli artisti nativi perché mi interessava capirne il mondo. La storia dei nativi americani e degli indigeni in generale è un tema che mi prende molto e fa parte anche di quello che c’è nel disco. Ma c’è molto altro, stavo riascoltando quello che ha fatto un amico, un trombettista di Colonia che si chiama Pablo Give, che ho conosciuto ad un seminario di Stockhausen ed ero con lui. Siam diventati amici e fa delle cose veramente belle con la tromba, microfonazioni alla Colin Stetson, cose molto belle.

Ultima domanda, la copertina del disco. È bellissima, cosa rappresenta? Sei tu?

Sì, sono io…quella è una foto che abbiamo fatto insieme, in una sessione con questa ragazza Fabiana d’Amato, senza saper esattamente. Io avevo in mente questo titolo perché partivo dall’intervista di quest’ attivista e per me, quel che mi aveva colpito, era che vedevo portare a diversi contesti vicini e lontani, lavorando così ad ogni singolo pezzo. Per la copertina abbiamo lavorato per riportare ad una sensazione di sforzo, ma anche di drammaticità e leggerezza.
Io mi muovevo e facendo tanti scatti abbiamo poi tagliato dando l’impressione di forza ma anche di abbraccio. Varie cose contrastanti ma anche calzanti per questo disco e per quello che avevo in testa.

Riguardandola ora mi ricorda la opera di Francis Bacon, che è uno dei miei artisti preferiti..

Eh beh!

Io penso di averti chiesto tutto Fabio, ti ringrazio e ti lascio la parola in caso volessi aggiungere altro!

Penso di averti detto una marea di cose già e…no, non mi viene in mente nulla!

Grazie mille!

Grazie a te, è stato un piacere…

Ah, dal vivo come vi muoverete?

Sicuramente suoneremo a Torino e milano, in alcune occasioni in solo ed in altre insieme a Manuel, riuscendo a dividerci l’elettronica. Con tutto quel che raccontavo mi piacerebbe quando possibile mantenere in duo anche se la dimensione in solo rimarrà anche nel tempo.

Grazie ancora Fabio, grazie mille!

A voi, saluti!