Il problema (se così vogliamo chiamarlo) che ho con Twelve Thousand Days, ma in generale con un po’ tutti i gruppi di Martyn Bates, è che lui me lo ascolterei incantato anche se interpretasse lo scontrino del supermercato: rischio, insomma, di mancare di obiettività. Di certo, siamo al cospetto di una vocalità peculiare, di quelle che o piacciono o non piacciono, ma almeno la qualità delle uscite di questo progetto in compagnia di Alan Trench credo sia innegabile, come innegabile è l’ispirazione che lo anima, da quando ha ripreso vita sei anni fa; un’ispirazione che pesca a piene mani nella tradizione folk inglese più esoterica e fra classici recenti, ritagliando loro una dimensione sospesa nel tempo.
Sebbene sia uscito lo scorso luglio, non riesco a pensare a un periodo migliore dell’autunno per dedicarsi all’ascolto They Have All Gone Into The World Of Light: la stagione che ospita antiche celebrazioni e nella quale la distanza fra i mondi si assottiglia fino ad annullarsi, è ideale per un album che dichiara il suo essere liminale fin dal titolo (spirato al poeta metafisico inglese Henry Vaughan) e lo ribadisce nei brumosi toni della copertina, particolare di un dipinto di Jan Mankes. È infatti nell’ora in cui “i pipistrelli sono in volo” che incontriamo il lupo mannaro di The Werewolf (rivisitazione di un brano dell’americano Michael Hurley), più simile a noi di quanto saremmo disposti ad ammettere o che incrociamo le enigmatiche figure, umane ed animali, che popolano Evenings Of Damask, con la voce, accompagnata da soli strumenti idiofoni, a trasformare l’originale dei T Rex in un folk minimale e sentito. E se decisamente inquietante è la conversazione con quattro tenebrosi cavalieri in Four Rode By, che il theremin e i synth rendono ulteriormente spettrale, Five And Six And Seven e My Golden Bird The Sun danno una diversa visione dell’idea di passaggio: qui il tema è la successione fra il giorno e la notte, mutamento immancabilmente presieduto da animali totemici e aperto a più ampie interpretazioni; il primo brano in particolare, una melodia suadente con cadenza da adulta ninnananna, è, a mio parere, la traccia migliore di un disco che vede tuttavia nel pezzo eponimo il punto centrale: una lunga e sentita preghiera di accettazione e speranza arrangiata con organo, mellotron, piano e chitarra. A completare la raccolta abbiamo poi un pugno di canzoni intimiste e personali (I’m Not The Stranger, Your Beauty), le tradizionali Bitter Withy e The Keys Of Canterbury e l’elegia finale di Green Wood: il fuoco di un camino, il fumo che sale verso una luna fredda, un refrain di chitarra che trasporta al primo ascolto, ci raccontano un pezzo d’estate che splende nel cuore dell’inverno.
Pur non presentando nulla di sostanzialmente nuovo rispetto ai lavori precedenti, l’ascolto di They Have All Gone Into The World Of Light non vi farà provare quella piacevole ma talvolta fastidiosa sensazione di già sentito, propria di chi lavora ormai più di mestiere che di ispirazione: in Tewlve Thousand Days l’idea statica di tradizione si fa eredità, un patrimonio che, ad ogni uscita, si arricchisce di nuovi ed essenziali capitoli.