This time I won’t be late: un anno senza Mingle

È passato un anno dalla scomparsa di Andrea Gastaldello, alias Mingle, ed è stato un anno strano senza un disco di uno dei musicisti che almeno un’uscita – e che uscita – ce la regalava sempre. Certo, è un pensiero stupido: altri staranno ancora soffrendo ben altre mancanze, avendo conosciuto l’uomo nella sua interezza e non solo il musicista. Che il primo sia più importante del secondo va da sé, ma abbiamo sempre trovato un po’ stucchevoli le commemorazioni modello “io l’ho conosciuto”: sentite, certo, sicuramente doverose, ma spesso compiaciute e sfocianti nell’agiografia, sebbene involontaria. Soprattutto, sono parole inutili se dette a chi ha conosciuto la persona, fonte di ripianto per tutti gli altri.

Tuttavia, in questo caso, a noi che siamo abituati a parlare di musica e non sappiamo fare molto altro, è data una possibilità rara: far conoscere una parte importante e tuttora viva dell’uomo proprio attraverso i suoi dischi. Capita, ne conveniamo, con ogni vero artista, ma se lì, in massima parte, ognuno mette in mostra la propria individualità, le proprie idee, i propri gusti, tuttalpiù mediati dal rapporto con eventuali musicisti d’accompagnamento, per Mingle il discorso è diverso: la maggior parte della sua produzione è in coppia con altri e il rapporto uno a uno fa emergere le caratteristiche dell’uomo che tutti possiamo ancora percepire e conoscere, immutate nel loro essere e nella loro forza. In questi lavori troviamo infatti un musicista che non mette banalmente la propria individualità al centro, ma si pone in condizione di ascolto, comprensione, propositività: ascoltarlo con orecchio attento è come seguire un ragionamento, sostenere una conversazione, costruire un percorso che va formandosi in nostra presenza. Cominciamo, quindi.

Mingle lo abbiamo conosciuto, col suo nome e cognome, in coppia con Andrea Faccioli (alias Cabeki): nell’album Dissangue (autoprodotto, 2016) si occupava dell’elettronica e del piano con poche note, quelle giuste, al servizio di una musica minimale, in equilibrio fra suoni cristallini ed eterei e rumori disturbanti. L’assaporare il momento, la calma nell’attesa dell’ispirazione, il lavoro certosino come sigillo dell’opera, sono tutte caratteristiche riscontrabili in un disco che, sospeso fra astrazione e concretezza, definimmo, e lo confermiamo, profondamente umano. Troviamo qui, per la prima volta (anche se il sodalizio era già iniziato in un precedente lavoro solista) Eraldo Bernocchi al mastering (e ospite in una traccia), una presenza importante che ricorrerà spesso.

Era poi venuto il momento dell’incontro con Deison, il più duraturo e prolifico: incontro a lungo solo virtuale e forse celebrato nel primo album del sodalizio da una cover interpretata da Daniele Santagiuliana, Failure degli Swans, al cui concerto veronese del 2013 entrambi parteciparono ma all’insaputa l’uno dell’altro. A rodare l’affiatamento c’era stato l’esordio nel singles club di Final Muzik, Low Blood Pressure (Final Muzik, 2014), in cui di nuovo Santagiuliana è ospite in un brano, ed era poi venuto il momento del capolavoro Everything Collapse(d) (Aagoo/Rev Laboratories, 2014): un’opera intransigente ma non irriflessiva, radicale nell’ideazione ma mai compiaciuta nello sviluppo, che attraverso il suono e la molteplicità dei riferimenti stilistici, coglie la complessità del reale. Laddove i droni e i rumori raccontano ciò che è stato (o quel che ne rimane), il piano interpreta il presente in chiave poetica e meditativa, rendendoci partecipi della caduta ineluttabile attraverso un suono senza tempo, antico nella sua natura, contemporaneo nella forma.

Il seguito, Weak Life (Aagoo, 2015), portava l’intransigenza di cui dicevamo alle estreme conseguenze: un album ruvido, quasi completamente sintetico, dove i due autori si dividono le macchine di un’elettronica sporca e cruda, con l’essenzialità che rimane a fare da trait d’union col lavoro precedente. Due sole canzoni vedono il nostro al piano: in Bloody Feelings avvolge e mitiga la durezza sferzante dell’elettronica, mentre nel crepuscolare brano eponimo si prende la scena con una melodia lenta e meditativa, a tratti disturbata da rumori ma altrove esso stesso meno accomodante, a scuoterci con inserti dissonanti, una schiettezza spiazzante e benvenuta.

Nell’album che chiude la trilogia, Innersurfarce (ST.AN.DA., 2017), il piano è accantonato (compare solo in It was… in duetto col violino di Nicola Manzan), e Mingle si occupa dell’elettronica e dei “treatments”, mentre il “noise” spetta a Deison. È un lavoro dove le idee traboccano oltre i confini dei brani e, scrivemmo, “le energie vitali e creative si disperdono in mille rivoli e vanno ad alimentare vene sotterranee che, tornate in superficie, nutriranno nuove creazioni”: vogliamo pensare siano ancora lì, disponibili a chi volesse abbeverarsene.

Per il duo c’era stato, nel frattempo, un intermezzo, in realtà tutt’altro che secondario: atto d’amore verso un luogo particolare (ma in definitiva verso tutti i luoghi dell’anima), Tiliaventum (Final Muzik/Loud!, 2017) sfonda i limiti comunicativi comprendendo letteratura, poesia, illustrazione, fotografia (tutti elementi che arricchiscono il bellissimo cofanetto, insieme a un sasso del greto del Tagliamento) e una quantità di collaboratori venuti a portare chi un suono, chi un rumore, chi delle parole, chi delle immagini in una sorta di rito collettivo atto ad evocare i molteplici genius loci che un’entità complessa come il fiume friulano ospita. Nato da un’idea di Sandra Tonizzo, il lavoro vede la partecipazione di Giulia Spanghero, All My Faith Lost…The Haunting GreenMiss XoxMatteo Dainese, YtonLorelei Facile, JersterN, Len e Anna Comand i cui contributi vengono cuciti, con cura certosina, in un tessuto sonoro che, solo per estrema semplificazione, potremmo definire ambient (in certi momenti l’approccio è decisamente muscolare, come in 21:00:12). Oltre ai trattamenti elettronici, qui Mingle torna alle tastiere con un minimalismo che evoca un tempo sospeso, lo stesso di cui leggiamo nel libretto, che lascia il paesaggio del fiume immutati per mesi, talvolta anni, prima che occorrano degli improvvisi cambiamenti.

L’attenzione per i luoghi e per il loro rapporto, non sempre pacifico, con l’umano torna nel lavoro in coppia con The Land of The Snow (Joel Gilardini) dedicato alla montagna e alla Grande Guerra, Vuoto/Leere (Luce Sia, 2016). Mingle, in questo caso, interpreta “il lato oscuro” attraverso droni e ritmi che fanno propri la voce delle vette inospitali e delle distese diafane in cui perdersi, facendo spesso da contrappunto alla chitarra di TLOTS. C’è nuovamente il piano, stavolta dissonante e freddo, a tratteggiare il paesaggio di Ghiacci Perenni/In Ewiger Schnee, come a ribadire l’inaccessibilità dei luoghi e, con essa, la loro intima bellezza.

Con Nerva (Final Muzik, 2016), duo in compagnia del maestro dei ritmi Andrea Bellucci (Red Sector A), Mingle prende in carico droni scurissimi che sostengono le scansioni ritmiche in una musica immersa in un’atmosfera cinematica, dall’incedere teso, drammatico e robotico, che prede a volte la forma di una specie di impossibile dance music. E fra battiti e glitch elettronici, abbiamo anche occasione di ascoltare il nostro cimentarsi, in Obscura Thule con una chitarra morbida e dronante, quasi ad alleviare la tensione accumulatasi nelle tracce precedenti.

L’ultima testimonianza su disco, segno della curiosità di confrontarsi con contesti nuovi, è Fifteen Strange Seconds, in combutta con Marco Machera, esponente di un pop raffinato, genere solo apparentemente lontano; o forse davvero lontano, ma l’affinità che si crea fra i due annulla le distanze.  L’EP omonimo (autoprodotto, 2020) è un esempio di cantautorato lontano da ogni stereotipo, dove Mingle esalta la vocalità di Machera con intelligenza e originalità: standole a distanza e valorizzandola per contrasto, come in This Time I Won’t Be Late (che vede alla chitarra Eraldo Bernocchi), oppure assecondandone gli umori, ironia compresa, nei due brani rimanenti. Un capitolo finale, nella carriera dell’artista, che corrisponde a un progetto incompiuto: lasciamo a voi pensare se vada vista come una brusca interruzione, un’apertura verso l’infinito, o altro ancora.

Quel che è certo, come dicevamo all’inizio, è che questa musica – e tutto ciò che porta con sé – può ancora parlarci, è più che mai viva: il rapporto creato fra i musicisti e con l’ascoltatore non è spezzato, anzi, paradossalmente si arricchisce di una nuova suggestione, diventando ponte fra qui e un inevitabile altrove. Non vi suoni consolatorio: checché ne pensiate, è un fatto assolutamente reale.