Questa sera, davanti all’ingresso del Kroen, sosta uno strano figuro, postura ingobbita, andamento ciondolante, parlata non locale. Non ci sono dubbi, è un americano ubriaco. Ora, uno yankee nel mezzo della campagna veronese può esserci solo se deve suonare e l’associazione “americano”, più “musicista”, più “ubriachezza” fa subito comparire lo spettro degli Oneida. Per la cronaca il personaggio è il secondo tastierista dei Paper Chase, aggregato alla band in occasione del tour e tanti complimenti per la felice scelta. Ma andiamo con ordine. Stasera si esibiscono tre gruppi e si comincia un po’ prima. Non mi ispirano più di tanto gli Entrofobesse, noise ben suonato ma che passa senza lasciare traccia, mentre dei Nicker Hill Orchestra ascolto poco, ma mi sento di sottoscrivere quello che il Corgnati dice nella recensione del disco: solito post-rock, ma ravvivato, scusate il paradosso, da un piglio piuttosto scuro.
I Paper Chase sono sul palco quasi subito. Nel pomeriggio si erano rifiutati di effettuare il soundcheck e rimediano ora, in non più di cinque minuti, buoni a regolare i volumi e un minimo i suoni. Il debosciato tastierista, dopo essersi dimostrato inetto anche al banchetto dei dischi, distribuendo resti di pura fantasia, è sparito dalla circolazione; forse collassato nel furgone, forse eliminato dai compagni e sepolto in un campo nei paraggi. Stasera si farà senza di lui, poco di perso.
Dall’improvvisato soundcheck si era capito che non sarebbe stata una serata di relax: ad ogni suono del basso pareva di aver qualcuno che tirava sberle dietro le orecchie, mentre la batteria, allestita con cassa, due timpani e due rullanti, senza tom, aveva il simpatico effetto di un calcio in pancia; si era capito anche che le atmosfere del nuovo album ce le si poteva dimenticare. Così è: stasera solo post hardcore spigoloso, basso che sembra avere tiranti al posto delle corde e un batterista che fa il superlavoro e più volte chiederà un time out per rifiatare fra un brano e l’altro. John Congleton, più piccolo e più giovane di quanto me lo aspettassi, catalizza l’attenzione agitandosi ed esibendo smorfie e mimi degni del miglior Jello Biafra, ma anche musicalmente fa la sua parte, con urla (parlare di cantato sarebbe troppo) e poche, calibrate rasoiate di chitarra. Solo la tastiera, ormai solitaria, appare poco incisiva, emergendo solo nei momenti di quiete; ma stasera si viaggia dalle parti delle produzioni più ruvide della Dischord e dei Girls Against Boys e davvero di tale strumento non si sente troppo la mancanza. È musica coi nervi scoperti, che trascina il pubblico sull’onda di una ritmicità spigolosa che porta lontano dalla pomposità bandistica del recente Someday This Could All Be Yours, di cui vengono eseguiti pochissimi brani e tutti filtrati dalle lenti deformanti del suono degli esordi. Vien da chiedersi se la defenestrazione dell’ubriacone abbia influito sulla scaletta, favorendo brani più collaudati o se questa sia la normale esibizione di questo tour. Ma conta poco , dopotutto, già che l’ultimo album non mi esalta mentre un concerto come quello di stasera, anche se un po’ retrò, fa bene, una volta ogni tanto.
Foto di Elena Prati