The Dining Rooms-Sensibili alle foglie(The Lost Soundtrack)_(Schema,2025)

Come ogni film, anche questo inizia con i titoli di testa. Sensibili alle Foglie (Titoli di testa) apre l’album e ci immerge in un paesaggio sonoro denso e materico, dove musica e cinema si fondono in un’esperienza sensoriale che è al tempo stesso immaginazione e memoria. È l’inizio di un viaggio: il momento in cui le luci si spengono e tutto può accadere. La composizione prende forma come una sequenza ininterrotta — un piano sequenza sonoro costruito attorno a un nucleo di chitarra e percussioni che si ripete e si espande. Il suono fluisce come un pensiero che si fa strada tra sogno e incubo, trascinandoci in un mondo ipnotico e inafferrabile, simile al magistrale piano sequenza dell’Infernale Quinlan: un movimento lavico, eterno.

Ma i Dining Rooms non si limitano a suonare: costruiscono visioni. Dal 1999, il duo milanese formato da Stefano Ghittoni e Cesare Malfatti ha dato vita a un linguaggio unico, fatto di elettronica, jazz e suggestioni visive. Ogni traccia è una scena, ogni album una pellicola invisibile, una colonna sonora che racconta emozioni e attraversa il tempo. Questo nuovo progetto nasce da un’idea rimasta in sospeso. Anni fa, un produttore commissionò al duo una sonorizzazione per una mostra dedicata a figure a tratti controverse ma rivoluzionarie del Novecento: Schifano, Faithfull, Boetti, Curcio, Strummer, Pozzi, Pasolini… Nomi leggendari, accomunati dal desiderio di cambiare il mondo. Quel lavoro si interruppe bruscamente ma, a distanza di anni, Stefano e Cesare decidono di riaprire quel cassetto. Riascoltano, rielaborano, completano. Così prende forma Sensibili alle Foglie (The Lost Soundtrack): un album quasi interamente strumentale, sospeso tra pellicole mai girate e visioni sonore, che si snoda come un viaggio intimo e visionario.

La barca di Gian Maria, il secondo brano, ci trasporta su un’imbarcazione in balia di un mare mosso e caldissimo: cori lontani e percussioni ci avvolgono, tastiere liquide scivolano tra i sample vocali, cullandoci mentre il sole ci provoca visioni tremolanti e celestiali. Con Ulrike e Andreas cambiano decisamente ambientazione e sensazioni: una tromba, che richiama il Miles Davis elettrico, introduce questa breve composizione dedicata a Ulrike Meinhof e Andreas Baader, fondatori della Rote Armee Fraktion. Simboli della lotta armata nella Germania degli anni ’70, le loro storie tragiche riecheggiano in un brano che trasmette fin da subito ansia, tensione e la sensazione di una corsa folle e senza ritorno verso il tragico epilogo di un’utopia infranta.

L’idroscalo di Ostia ci riporta a quella maledetta notte in cui Pasolini fu martoriato. Ghittoni e Malfatti evocano quel momento con campionamenti essenziali, un drumming scarno che scandisce una fuga impossibile, mentre un frammento di voce maschile sembra quasi l’ultimo sospiro soffocato del poeta. Mara e le altre si apre con un pianoforte elettrico dal suono crescente, che ci restituisce la grana ruvida dell’epoca delle bande armate. Corde dissonanti, basso e sintetizzatori accelerano e ci mostrano uno scatto che sembra fatto su Kodak Gold tanto è il calore e la luce che emana: una fotografia più eloquente di tanti saggi. Il brano è ispirato a Mara Cagol — cofondatrice delle Brigate Rosse, caduta giovane in uno scontro a fuoco nel 1975 — e, con ogni probabilità, anche a tutte le donne che, in quegli anni convulsi, scelsero la via della lotta armata. La melodia essenziale che si sviluppa e si ripete è prova della profonda conoscenza dei Dining Rooms delle colonne sonore anni ’70 — e della loro capacità straordinaria di assimilarle in un linguaggio personale. Racchiudere tutto questo in due minuti è da applausi.

Mario Schifano e Marianne Faithfull sono la suggestione e la materia viva che si fa suono nella sesta, brevissima, composizione. Un brano che vibra di una luce forte, quasi accecante: quel fuoco che ardeva in entrambi, e che deve aver illuminato Roma, anche solo per un attimo, al loro incontro. Gudrun e Rose si apre con arpeggi sintetici e rumori cosmici: in tre minuti, ci fa viaggiare tra autostrade tedesche e tappeti da meditazione trascendentale. Una musica che ricorda i Kraftwerk più selvaggi e primordiali di Ralf und Florian, e le Kundalini Meditation di Deuter. Ghittoni e Malfatti qui ci invitano, sapientemente, al viaggio.
Alighiero e Boetti è preceduto da un’intensa ripresa del tema iniziale per sola chitarra. Poi, basso, batteria e archi pizzicati danno vita a un brano nervoso, spigoloso, come una corsa notturna nella Kabul degli anni ’70 insieme a Boetti: un rincorrersi di idee, intuizioni, colori e geometrie primitive. Compagna Luna, ispirato al memoir di Barbara Balzerani, militante e ideologa delle Brigate Rosse, è un brano di appena 50 secondi che riesce a farsi macchina del tempo. Un dispositivo sensoriale e conoscitivo che ci proietta in un’epoca remota, e ci restituisce un’emozione nitida — come solo il suono sa fare.

La spilla di Joe a Bologna ci riporta al leggendario concerto dei Clash del 1° giugno 1980. Una ripetizione essenziale di poche note su corda e una ritmica quasi marziale creano un brano evocativo, minimale, che ricorda per certi aspetti i Matmos di Civil War. Antonia Francesca Chiaravalle New York sembra visitata da due donne visionarie e fragili: la poetessa Antonia Pozzi e la fotografa Francesca Woodman. Entrambe vissute in un legame totalizzante tra arte e vita, entrambe morte troppo presto. I Dining Rooms hanno l’intuizione potente di accostarle, dedicando loro una composizione commovente, capace di accoglierci e accompagnarci — ma anche di diventare colonna sonora per nuove storie, purché pure, integre e profondamente sentite. A Renato Curcio, figura emblematica della lotta armata, è dedicato il tredicesimo brano. Anche qui, il duo milanese riesce a restituire un periodo storico e le sue contraddizioni con pochissime pennellate. È un esercizio di essenzialità e presenza, come nella via zen di Dogen, dove ogni gesto contiene già l’intero universo. Questi brani sono centri al bersaglio, frutti di una lunga ricerca — sonora, ma anche filosofica.

Vogliamo tutto è la penultima composizione prima del grande finale ed è una sintesi sonora e una prosecuzione sensata di tutti i brani precedenti. Questo emblematico slogan delle piazze e dei movimenti che hanno tentato diverse rivoluzioni nel nostro paese, senza purtroppo ottenerle o ottenendo un risultato ben diverso dalla società illuminata a cui miravano, è forse l’essenza di molti percorsi e storie che attraversano questo commovente lavoro. Qui, storia personale e collettiva si incontrano e si scontrano, mentre potentissimi movimenti artistici e politici tentano un balzo in avanti, che non sempre porta al risultato sperato o che, talvolta, richiede un prezzo troppo alto per la propria visionarietà. Questo è un brano che, nella sua reiterazione, riesce a lanciarci flash dal passato ma anche dal futuro. Una delle letture possibili potrebbe essere quella di farci investire da queste vite, questi percorsi, i fallimenti e le rivoluzioni che attraversano questo disco, facendone tesoro e bussola per l’apocalittico futuro che ci si prospetta, rimanendo consapevoli e saldi al timone di noi stessi quando tutto sarà tempesta e buio. Che queste vite possano essere le stelle che ci guidano nella lunga notte.

Ed eccoci alla fine. Sensibili alle Foglie (Main Theme_Titoli di Coda) ci permette di riprendere fiato. Il tema iniziale viene ripreso in una versione lunga, intensa, e conclusiva. La voce di Francesca Bono — intensa fino a risultare quasi insostenibile — appare come un lampo sull’ultimo fotogramma, lasciando un’eco che continua anche dopo la fine. È un brano che ha la sobrietà e la compiutezza di un epilogo cinematografico o di un romanzo che ci ha accompagnato nel tempo. E come ogni grande opera, ci lascia dolcemente, con un lungo piano sequenza narrativo. Anche nel finale, non posso che ribadire la mia impressione: siamo davanti a una narrazione per immagini, una costruzione di assonanze e dissonanze che stimola sentimenti profondi e riflessioni altrettanto importanti. Davvero, non potremmo chiedere di più. Né di meglio.