Due macchie nere, violenza, e scomparire in un pozzo di tempo. Il problema non è l’altezza. È quando torni giù che cambia tutto. Quando colpisci, con il tuo peso. E allora, qual è la bugia? Durezza o morbidezza? Silenzio o tempo? La bugia è credere che sia una cosa o l’altra.Un’ape immobile, fluttuante, si muove più in fretta di quanto lei stessa non pensi. Da lassù, la dolcezza la fa impazzire. La tavola annuirà e tu andrai, e i neri occhi di pelle si incroceranno e accecheranno in un cielo maculato di nuvole, luce perforata che si svuota dietro la pietra aguzza che è per sempre. Che è per sempre. Metti piede nella pelle e scompari.
Ciao.*
Un tappeto di frequenze impazzite ci accoglie: sintetizzatori modulari ci avvolgono ritmicamente e ci trasportano altrove, forse tra le onde modulate dal vento del lago che appare in copertina e dà il titolo a questo nuovo lavoro dei Terry Blue. La voce di Leo Pusterla in questa prima composizione è come una piccola e antica imbarcazione: naviga, si impenna tra queste frequenze stridenti e diventa un punto fermo, un’ancora che trattiene il caos dell’acqua, che si muove in tutte le direzioni. Entrano le percussioni, ma non per dare ritmo — quello è già scolpito nelle nostre orecchie dai synth — bensì per aggiungere drammaticità, per ampliare lo spazio dei riverberi e degli echi. Il brano riesce perfettamente in ciò che ho sempre percepito nei Terry Blue: la ricerca di un linguaggio proprio, di un’unicità interna a un genere che forse è rock pop, ma che vuole essere altro, vuole trasformarsi, mutare dentro strutture antiche.È una canzone degli addii: Leo, in chiusura, salmodia tra fragori e stridii che il ricordo è una melodia — e suonandola, forse, si può riaccendere un antico fuoco. Far riaffiorare un frammento di un’altra vita, di un mondo passato… o magari ancora futuro.
Gone Glacier, secondo brano e primo singolo uscito, mi ha subito fatto drizzare le orecchie. Parte con nastri mandati al contrario, e su questo riavvolgersi sonoro entra la voce profonda di Pusterla.L’andamento è sicuro, navigato: un perfetto esempio di pop mutante, in costante ricerca del nuovo e di sé stesso.È un brano che guarda avanti con libertà, rispettando la tradizione, ma con la voglia di superarla. Cresce ad ogni ascolto, svelando il raffinato livello compositivo dei Terry Blue.Forse il pop, alla fine, è proprio questo: una canzone che ti accoglie con dolcezza e, senza che tu te ne accorga, ti accompagna in un viaggio profondo, ricco di senso. Gli elementi sonori ti investono come per magia, e ti trovi dentro una ricerca personale, nei tuoi ricordi, nel tuo vissuto.Il testo è un andare a ritroso, fatto di lampi, intuizioni, sensazioni intense. Il mondo naturale e l’intimità della giovinezza di Pusterla si fondono, e come in una passeggiata Walseriana seguiamo i nastri che si riavvolgono all’infinito. Ci emozioniamo e ci prepariamo per un nuovo viaggio. Brano notevole da ogni punto di vista — da ascoltare in cuffia per credere.
Alicant è un prisma sonoro allucinato, un sogno lucido, un’immersione in un liquido amniotico che ci culla. Luci del sud ci sfiorano e rendono tutto tremolante e familiare. Il suono richiama in modo intelligente gli Animal Collective, il primo Panda Bear solista, ma qui le risonanze sono consapevoli e filtrate da una poetica autonoma. Eleonora Gioveni e Leo Pusterla plasmano un’idea di suono propria: sintetizzatori, batteria e cori tessono trame tremolanti, come le pellicole alterate di Stan Brakhage. Il tempo e lo spazio si piegano, si espandono, esplodono in questa composizione torrida e liquida.
Con Comebacks torniamo “a casa”. Pochi accordi di pianoforte elettrico e un sintetizzatore modulato aprono questa ballata calda, che parla di un passato che vibra nel presente.Un passato fatto di ricordi forse dolorosi, ma essenziali per andare avanti. Le voci dei Terry Blue diventano una sola: si muove con sicurezza e fragilità, in balia dei moti del cuore. Tre minuti di commossa gioia ci travolgono e ci esaltano — anche perché ci rendiamo conto di non essere neppure a metà di un disco che, fin da ora, si mostra essenziale e orchestrato con maestria.
Wenders esplicita ciò che avevamo già intuito fin dal primo suono: l’amore dei Terry Blue per il cinema. Sono permeati da quella scheggia primordiale che è il raccontare per luci e ombre, da sempre — sin dalla grotta di Lascaux. Un tempo i suoni erano segnale, significato, simbolo. E così accade anche qui: con la loro musica e le loro parole, Eleonora e Leo creano film sonori, immagini mentali che ci proiettano altrove. È come trovarsi nel buio di una sala cinematografica, dopo l’orario di chiusura, circondati da arredamenti imbottiti e da storie che ci arrivano dai margini, tra vita vissuta e ancora da vivere. Questo brano — omaggio all’autore di Falso Movimento e a un’intera filmografia essenziale per comprendere il tempo e noi stessi — è una scelta coerente e profondamente ispirata. Wim Wenders e il duo ticinese condividono qualcosa di raro: la ricerca instancabile di un linguaggio personale, il coraggio di rimettere in discussione ogni certezza. Nella sua apparente cripticità, il testo custodisce molteplici possibilità, fughe narrative, visioni. Ed è proprio per questo che il brano riesce a rendere omaggio a Wenders nel modo più autentico: perché, ascoltandolo, non possiamo fare a meno di vivere un nostro film interiore, fatto di ricordi, intuizioni e rivelazioni.
Minoux ci riporta nel bosco, tra una natura invadente e invisa, scrigno di segreti e testimone del nostro viaggiare. Chitarre liquide, percussioni e voci danzano lentamente in un brano che fluttua tra il Brian Eno in dialogo con Robert Fripp e il Bon Iver più intimo e rarefatto. Tutto vibra e si muove come se passasse dallo stato liquido a quello gassoso.Le voci abitano questa realtà in mutazione lenta. Una batteria lontana scandisce battiti splendidamente irregolari, esaltando l’essenza aleatoria del brano.
Hauxes ha un battito costante, chitarre luminose e riflettenti, e le voci sono acqua cristallina che scorre dal ghiacciaio al mare, impaziente all’idea del grande tuffo. Anche qui, i Terry Blue ci cantano di una natura che si fa umana, e di persone che alla natura tornano con la mente per vibrare di luce antica e al tempo stesso futura. Un sud della memoria, un ritorno a sé stessi immergendosi nel mare caldo di ricordi tremolanti e dolcemente inesatti. La giusta canzone da ascoltare prima di fare un gran tuffo, per andare in profondità e riemergere un po’ diversi.
Tra i fantasmi che si aggirano sulle acque di questo lago e tra i rami di questi alberi, c’è sicuramente quello di Brian Wilson, che si rende visibile in questa ottava composizione per sole voci e sintetizzatori, su un bordone celestiale degno dei migliori Beach Boys quando stavano saldi sui loro surf, in cima all’onda a fare da spartiacque tra l’aria e l’acqua, tra il cielo e la terra, tra il buio e la luce. Cegueira è un brano breve, ma di una quasi insostenibile intensità, in cui Leo Pusterla salmodia le sue parole, elevandole su questo mare di voci che ci riportano alla mente anche David Crosby che non ricordava più il suo nome, e il mondo descritto da Pynchon nel suo Inherent Vice.
Fragile Friend ci canta il distacco, la sofferenza e la flebile speranza che ci rimane.Ci parla di quell’amico fragile, il cui viaggio portava un po’ più lontano. Voci e musica orchestrano un toccante commiato, un rito di passaggio con le lacrime agli occhi e il pugno alzato a maledire il cielo. Se in tutti i brani l’intensità emozionale è altissima, qui tocca sicuramente una vetta e non può che accompagnare e abbracciare tutti noi che abbiamo avuto un amico fragile— o forse lo siamo stati, almeno per un tratto di strada. Gli echi, le distorsioni, le armonie e, in generale, il mondo sonoro di questo brano ci abbracciano, dicendoci che ci rivedremo. E non posso non tornare con la mente al testo dell’ultimo brano di uno dei più grandi compositori e ricercatori spirituali del ‘900, Franco Battiato, che con un flebile filo di voce cantava:
La vita non finisce,
è come il sogno.
La nascita è come il risveglio.
Finché non saremo liberi,
torneremo ancora,
ancora e ancora.
E poi arriva Glitch, che apre con torridi arpeggi di sintetizzatore e le voci che ne sfiorano le superfici, seguendo veloci movimenti fatti di scatti in avanti e repentini rallentamenti. Entra una ritmica martellante a sottolineare l’incontenibile energia che pervade questo brano, che si chiude poi come un sogno che velocemente evapora al risveglio. Lakewoods, che dà il titolo all’album, è un brano folle che da subito mi ha ricordato la lucida follia di John Frusciante quando appena uscito dalla più blasonata band del mondo, diede alla luce Niandra Lades and Usually Just A T-shirt, album folle e visionario, pervaso da visioni e geniali intuizioni. Qui, in questi due minuti e ventidue di Lakewoods, c’è l’essenza di tutto il disco e una iperdefinita fotografia del picco creativo in cui si trovano i Terry Blue.
C’è consapevolezza, allucinazione, sofferenza e gioia. Sì, il brano e il disco sono pervasi da una crescente gioia, data forse proprio dalla materia stessa da cui sono investiti i Terry Blue e di cui si fanno interpreti e portatori: il suono, la sua forza generatrice che ci eleva e distacca da una decadente realtà, spingendoci verso la parte migliore di noi, quella che ci fa stare bene e che, se ascoltata, potrebbe farci diventare esseri migliori. Questo brano è un paesaggio, non solo sonoro, ma tangibile: con le sue aperture melodiche e i suoi cambiamenti inaspettati, con la fitta stratificazione di suoni e rumori, è un paesaggio che ci è familiare, che ci accoglie ma al tempo stesso ci inquieta ed allontana. Un brano che si fa mondo. Nel finale, tutto si fa rumore, rumore di acqua che scorre e che tutto si porta via, verso la fine che non è nient’altro che un nuovo inizio.Il dodicesimo brano, Emery’s Dream, si muove oscuro e senza apparente speranza su un battito sincopato che ci rapisce e trascina con sé. Il sogno in cui ci portano è distorto e dominato da un pessimismo quasi totale, fatto di ombre e luci notturne. L’aria è asfissiante e l’unico appiglio che abbiamo per non andare verso fondali oscuri e melmosi è seguire questo ipnotico brano nella speranza che ci porti verso la luce.
Con Deja Vu, andiamo verso il gran finale. Questo brano, come tutti gli altri, ci stupisce per le sue soluzioni armoniche e ritmiche, consapevolmente mature e pervase da un gran senso della misura, difficile da trovare nella musica contemporanea. Svegliami, svegliami, canta Pusterla nell’incipit, a ribadire come, se ancora ce ne fosse bisogno, questo lavoro si muove ispiratissimo tra il sogno e la realtà, nella totale consapevolezza che La realtà non esiste, come cantava Claudio Rocchi.
Holderness si apre con un pianoforte che lentamente si dissolve in sé stesso, come se ogni nota si riflettesse sull’acqua prima di svanire. È l’inizio di un ultimo, prezioso viaggio sonoro, in cui suono e silenzio si rincorrono come onde leggere su una superficie immobile.Echi e riverberi ci fanno atterrare in un paesaggio esteso e difficilmente leggibile, come se fossimo i dispersi personaggi di Gerry di Gus Van Sant o le ragazze che, come stregate, si addentrano tra le misteriose pietre di Hanging Rock. Piano, batteria e voci procedono come se davvero ogni passo potesse essere l’ultimo. È stupefacente come anche qui, come nelle tredici composizioni precedenti, i Terry Blue riescano ad essere se stessi, creando sempre qualcosa di nuovo. Rimaniamo con il fiato sospeso di fronte alla sfrontata bellezza di questo brano: pianoforte, flauto traverso, voci, archi e una miriade di suoni ci regalano un ultimo iniziatico viaggio. Per un momento, questo brano mi ha ricordato una delle più importanti band di sempre, e il loro suono essenziale che davvero sembrava venire da un’altra dimensione, gentile e perfetta: i Talk Talk. Questo brano chiude un disco importante, sicuramente per Eleonora e Leo, che sono riusciti a dare forma e sostanza alle loro più intime sensazioni e intuizioni, ma lo è anche per noi che, investiti dalla sfrontata bellezza di questo lavoro, capiamo che il nostro andare deve essere il più possibile puro e libero, esattamente come questa musica!
*da Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace