Ciao Leo, grazie per il tempo che ci dedichi.Partiamo da un’immagine: la copertina del disco. Quel luogo – un lago, immerso tra i boschi – esiste davvero? Dai brani sembra emergere come un luogo simbolico, legato alla memoria ma anche al presente. Ti va di raccontarci che posto è per te?
Il bosco di lago, in effetti, assume una duplice valenza all’interno del disco
rappresentando da un lato un paesaggio noto a tutti noi e, allo stesso tempo, uno
spazio allegorico e metaforico. Nello specifico, l’immagine ritratta in copertina è
effettivamente un luogo esistente, il lago di Muzzano, ritratto dal fotografo e regista
Alan Koprivec. L’idea che ha dato forma al disco intero e all’immagine del “bosco di lago” nasce da
una discussione con l’amico e regista Olmo Cerri che, tempo fa, chiese ad Eleonora
e me di comporre un brano per il suo documentario “La Scomparsa di Bruno
Breguet”. Completamente all’oscuro della vicenda misteriosa e intrigante dell’attivista
di origini ticinesi, abbiamo composto la traccia “Lakweoods”, più antica all’interno
dell’omonimo disco, riflettendo sui paesaggi della mia – e di tutti coloro che hanno
vissuto sulle rive del lago di Lugano – infanzia.
Il bosco di lago assume la forma di un luogo da cui tutti, in qualche modo, sono
scappati, e in cui tutti, in fondo, tendono a tornare. Pensando a Breguet, abbiamo
immaginato il suo punto di vista, il suo sguardo rispetto ad un panorama che lo ha
visto crescere, scomparire, tornare e scomparire nuovamente. Questa immagine, in
maniera parzialmente inconscia e senza davvero seguire un discorso logico e
cronologico, è diventata per noi fondamentale, come se ognuno di noi avesse i suoi
propri boschi di lago da cui scappare, in cui tornare e nei quali riconoscere il proprio
percorso, i propri errori, le tragedie quotidiane e l’inesorabile passaggio del tempo.
Quei paesaggi, in qualche modo, fanno da cornice e contestualizzano nella loro
diversità tutti i brani del disco.
Che rapporto hai con lo scorrere del tempo? Pensando alla musica, credi possa essere un modo per relazionarsi con il tempo, per rallentarlo, congelarlo o perfino provare a invertirne il corso?
Credo che il “passare del tempo”, come ho in parte anticipato nella risposta
precedente, sia uno degli elementi che più mi ossessiona della mia pratica artistica e,
in qualche modo, nella vita di tutti i giorni. Sono convinto, forse anche a causa
dell’assenza più totale di spiritualità – in senso canonico – nella mia vita e nella mia
concezione del mondo, che il “lasciare una traccia” sia uno delle forze motrici
fondamentali nella mia pratica compositiva. Il terrore dell’oblio e la paura di essere
dimenticati, di non aver nulla che possa assomigliare ad un lascito, mi segue da
tempo e si radica profondamente nei miei testi e nella mia musica. Non si tratta,
come si potrebbe pensare, di voler fermare il tempo o cristallizzare le esperienze e
non credo più, da tempo, nei poteri terapeutici dell’arte: sono timoroso e malfidente
nei confronti dell’arte che trova il suo scopo nello “sfogo”, nel rigurgito viscerale del
proprio malessere: credo che sia necessario fare un passo in più, distanziarsi dal
proprio essere musicista e paroliere e, in qualche modo, spostare il punto di vista
evitando così di scadere nella “musica che ti salva”. Sono convinto, al contrario, che
ci sia ben poco di salvifico nel gesto creativo e che sia uno degli atti di coraggio più
alti, se compiuto in un certo modo. Sempre più allergico al costante bisogno di
attenzioni e riconoscimento che il mondo della musica moderna – e forse il mondo in
senso lato – ci impone, mi trovo a riflettere sul perché, in effetti, io faccia musica, e la
risposta, per quanto semplice, riguarda proprio il tempo e il suo inesorabile scorrere:
voglio lasciare una traccia perché convinto che in fondo nessuno di noi possa
davvero lasciarne una.
Il passato sembra avere un ruolo centrale nei vostri testi. Ma non come qualcosa di statico o chiuso, quanto piuttosto come un elemento vivo, con cui mantieni un dialogo costante. È una lettura che condividi?
Il passato, senza dubbio, diventa un elemento vivo ed organico nel nostro scrivere.
La sua non staticità, in un certo senso, trova ragione di esistere proprio nella mia
assenza di credo e nella convinzione che sia nostro dovere, e di nessun altro,
mantenere vivo e ribollente il movimento dei ricordi. Anche in questo caso mi trovo
spesso riluttante nei confronti della visione del “resiliente”, altra parola a cui sono
allergico, che sembra dilagare nel grande discorso della “gestione del malessere, del
dolore e delle esperienze negative”, che spinge ognuno di noi a reprimere, in fondo,
la sofferenza, a renderla nemica ed ignota, sconosciuta ed aliena. Spesso l’unica
soluzione sembra congelare le esperienze, specialmente quando negative e
traumatiche, e confinare in uno spazio protetto della nostra psiche, uno spazio nel
quale non ci è più lecito accedere e del quale fingiamo di dimenticare l’esistenza.
“Lakewoods”, in un certo senso, cerca di fare proprio il contrario: vuole essere un
tentativo di dialogo con il dolore, un “vedere il dolore” e un riconoscerlo come umano,
non trascendentale, spirituale o irraggiungibile. Il dolore è e deve restare terreno e
palpabile, deve prevalere e totalizzare prima che possa assumere altre forme.
Credo che sia lo stesso per il passato e per i ricordi, la resilienza è e resta una
proprietà dei metalli, non degli umani. Se parlassimo più spesso di resistenza,
invece, di confronto consapevole ed attivo, di “guerrilla emotiva”, forse saremmo un
po’ più simili ad esseri umani che ad automi dell’empatia protocollare.
A volte ci sono suoni che rimangono dentro di noi per tutta la vita. Hai suoni legati al tuo passato che porti ancora con te e che magari tornano nella tua musica?
Il mondo del suono, nella sua vastità, mi ricorda spesso il mondo dei profumi, quasi
entrambi avessero un modo simile di presentarsi nella nostra esistenza e di dettare il
movimento del nostro pensiero e la nostra personale interpretazione della vita. In
questo senso, moltissimi sono i suoni che hanno costruito la mia esperienza e che
tornano, puntuali, nella mia pratica compositiva. I paesaggi, sicuramente, ed il loro
manifestarsi sonoro giocano un ruolo centrale in “Lakewoods”. Non soltanto i
paesaggi naturali bensì il grigio urbano, il putrido cittadino, gli ospedali, le strade di
provincia, il loro manifestarsi dialoga costantemente con le vicende quotidiane della
mia esistenza e di quella di coloro che mi circondano. Non si tratta soltanto di uno
strumento narrativo, per quanto efficace possa diventare all’interno di un disco come
questo. Citando, malamente, il poeta Philippe Jaccottet, mi sembra di scorgere una
verità, l’unica a cui riesco ad ancorarmi, ovvero un senso nel suono della natura, nei
ruscelli e nei boschi di lago, nei campi e nelle sassaie di alta montagna; allo stesso
tempo, quella stessa verità sembra manifestarsi in maniera antitetica nell’urbano, nel
non-vivo. L’unione di questi due mondi fa da cornice, in qualche modo, alle storie che
racconto. Difficilmente scorgo una soluzione, una risposta o una verità nelle vicende
che porto in musica, l’unica scappatoia è dunque il suono che non produco io, non
direttamente, bensì quello che sento, che cerco di intrappolare nelle orecchie quando
mi trovo di fronte ad un ghiacciaio, ad un fiume in piena o ad un ospedale nelle ore di
punta.
Avete una prassi o dei rituali quando componete? Oppure ogni brano ha la sua genesi, il suo percorso unico?
Fatico a trovare un rituale o un “modus operandi” nel nostro percorso creativo: si
tratta infatti di un’alchimia strana e spesso inesplicabile, un percorso ad ostacoli
costante che, a volte, si concretizza nella scrittura di un brano. In passato, spesso, il
punto di partenza era il testo, poi è stata la chitarra; oggi riconosco come
fondamentale e spesso ispirante la ricerca sonora, la sperimentazione. È infatti la
prima volta, da quando mi sono lanciato nel mondo della musica e della scrittura, che
mi trovo a “cominciare” un percorso creativo partendo da elementi estremamente disparati: un groove di batteria, un field-recording, un suono ricavato per caso, per errore, una dissonanza poco ortodossa che di colpo assume un potere nel mio immaginario.
Lakewoods, nato sicuramente dalle vicende, dagli incontri e dalle esperienze di
questa mia “prima parte di vita adulta”, si articola quindi in maniera estremamente
imprevedibile, e imprevedibile è stato anche il percorso di registrazione ed
ultimazione del disco intero.
Lavorare come duo richiede grande sintonia. Come vi dividete i compiti nel processo creativo? C’è una specializzazione dei ruoli oppure tutto nasce in modo fluido e condiviso? Come lavorate sulle voci? Tu ed Eleonora avete trovato un equilibrio molto particolare tra voce e suono: come siete arrivati a questo tipo di intesa vocale e musicale?
Credo che la sottrazione sia una delle chiavi fondamentali della nostra pratica
musicale. Potrebbe sembrare una banalità ma, forse, una delle cose di cui più
bisognerebbe tenere conto in musica è il silenzio. La tensione, armonica ed emotiva,
non nasce dalla stratificazione esasperata e, allo stesso modo, credo che il nocciolo
dell’emozione non stia nel virtuosismo (perlomeno non in questo tipo o genere di
musica) o nella tecnica fine a se stessa. Piuttosto allergico, anche in questo caso,
alla musica fatta per i musicisti, per gli addetti ai lavori che annuiscono con fare
saccente di fronte ad un solo estremamente complesso, ad un accordo abbastanza
ricercato da rendere l’esecutore “un ottimo compositore” o ad un cantato arricchito da
mille diverse tecniche e protocolli (Eleonora, maestra di canto, mi racconta del suo
passato accademico a volte e spesso mi sembra di sentire la telecronaca di un
evento di ginnastica atletica più che un gesto creativo), mi trovo molto più a mio agio
nella semplicità e nel potere cinematografico della musica. Resto dell’idea che un
brano, per quanto complesso e stratificato possa essere, resta soltanto un esercizio
di stile se non mi porta altrove, se non suscita in me immagini, ricordi, emozioni
(negative e positive che siano).
In molti brani emerge un uso marcato dello spazio sonoro. Come lavorate per costruire e gestire lo spazio all’interno di una composizione? Mi sembra che partiate da una forma-canzone piuttosto classica, ma che poi vi muoviate verso un equilibrio sofisticato tra melodia, rumore e ambienti sonori. Com’è stato il percorso per arrivare a questa sintesi?
La “forma canzone”, come in ogni disciplina artistica, rappresenta un canone e allo
stesso tempo un’invisibile prigione nella quale tendo a non voler restare troppo a
lungo. Sempre più spesso, nella mia pratica di produttore per altri artisti, mi scontro
con il terrore di “non fare le cose come dovrebbero essere fatte”. Non sto
demonizzando le strutture classiche, i ritornelli al punto giusto ed armonicamente
impeccabili, i bridges studiati alla perfezione: semplicemente non mi ritrovo più in
questo approccio e credo che, scavando un pochino, sia facile rendersi conto di
quanto il genere in cui mi muovo, e non solo, si stia diversificando, sperimentando
nuove forme liriche e musicali. Ricordo, non con poco ribrezzo, un professore di
tecnica del suono dire “i primi 6 secondi sono i più importanti, su Spotify skippano la
traccia se non li prendi lì”.
Aldilà della mia visione, forse un po’ idealista, di questa industria musicale che
sembra assomigliare sempre di più ad uno sport d’élite nel quale il doping è pratica
ben accetta, sono sicuro di una cosa: non voglio fare musica per chi ha tempo di
ascoltare soltanto i primi sei secondi e, sicuramente, non voglio sottostare a canoni,
forme o esigenze commerciali quando scrivo una canzone: forse ci siamo convinti,
un po’ tutti, che debba per forza funzionare così e quando sentiamo qualcosa di
leggermente deviante e diverso la reazione è sempre: “beh, lui/lei può farlo, ormai è
famoso/a”. Ecco, credo che questo punto di vista sia terrificante, il peggior nemico della musica
libera: tutti dovrebbero sentirsi legittimati a scrivere e a suonare, prima di tutto, per
come vorrebbero scrivere e suonare e non per come l’industria, i social network, i
talent e i grandi saggi e santoni vorrebbero.
I rumori “sporchi” e le distorsioni a volte diventano quasi un linguaggio. Cosa vi affascina di queste sonorità imperfette? C’è a vostro avviso un messaggio o una poetica nascosta nella “bellezza della dissonanza”?
I suoni sporchi e le dissonanze assumono per noi un ruolo fondamentale all’interno
del nostro processo creativo. Forse e prima di tutto in relazione a ciò che cantiamo,
da un punto di vista prettamente testuale, ci sembra sempre più necessario
allontanarci dalla dolcezza, che comunque pervade il mio modo di suonare e
cantare. Allo stesso tempo, lo stridore e la dissonanza del mondo che ci circonda,
ogni giorno, mi sembra sempre più presente e totalizzante e in qualche modo non mi
sento più legittimato a fare “cose piacevoli” quando di piacevole intorno a me vedo
ben poco. Come dicevo in precedenza, credo che sia necessario e fondamentale
riconoscere il dolore e la sofferenza e credo che entrambi meritino un luogo di
espressione, non soltanto nei testi ma anche nel suono. Naturalmente, le scelte che
abbiamo preso durante la scrittura di Lakewoods hanno un profondo legame con i
nostri ascolti più recenti e con l’utilizzo di strumenti elettronici – e non – che scopro
giornalmente nei dischi che più amo. Ho sempre pensato che in musica, e forse in
tutte le discipline artistiche, il furto sia necessario e fondamentale: la dissonanza e lo
stridore sono ovunque, in musica, basta cercare nel modo giusto e non precludersi
nulla ascoltando e scoprendo nuovi orizzonti musicali.
La vostra musica si nutre molto della tecnologia, dai modulari alle manipolazioni sonore. In che modo la tecnologia ha ridefinito il vostro modo di creare?
La tecnologia gioca un ruolo importantissimo per Terry Blue, in vari modi. Non posso
non citare l’apertura del nostro studio di registrazione, Safe Port Production, luogo in
cui produciamo la nostra musica e quella di molti artisti del territorio. Non mi era mai
capitato, infatti, di poter comporre interamente un disco in questo modo;
generalmente l’iter prevede un periodo di arrangiamento, molto spesso non in studio,
seguito dalle registrazioni, spesso frenetiche, dettate dal tempo e dai soldi. In questo
senso, avere a disposizione il nostro spazio, tutta la nostra strumentazione, e
soprattutto il tempo (lo studio si trova infatti…in casa nostra), ci ha permesso di
esplorare a fondo le sonorità che volevamo riportare in Lakewoods. A questo,
tuttavia, si somma un elemento organico che credo sia peculiare nel mondo sonoro
del disco: naturalmente molti sintetizzatori, molte batterie e molti suoni sono
programmati, quantizzati ed affidati a campionatori e quant’altro e la scoperta di
questo mondo, esplorandone le potenzialità, è stata fondamentale per costruire il
paesaggio sonoro che avevamo in mente. A questo, tuttavia, si somma la
componente organica, viva e reale creata dagli strumenti acustici e dagli interventi
dei musicisti che hanno partecipato al disco (Zeno Gabaglio, Christian Gilardi,
Andrea Manzoni e Matteo Mazza). In un certo senso, quel contrasto tra natura ed
urbano trova una sua traduzione ed interpretazione anche in questo; molto spesso
non si capisce esattamente chi stia suonando cosa, ma si possono riconoscere
respiri, rumori, piccoli errori umani dettati dalla registrazione. Aggiungere questo
mondo organico era per me fondamentale all’interno dell’economia del disco.
Com’è fare musica oggi in Ticino? C’è una comunità musicale attiva? E come si pongono le istituzioni nei confronti della musica contemporanea?
La musica in Ticino, un discorso estremamente delicato. E per toccarlo credo sia
necessario parlare di “cultura” e non soltanto di musica.
Rispondo cercando di affrontare l’argomento da due punti di vista. Grazie a Safe Port
Production e alla mia pratica di produttore scopro quotidianamente un sottobosco
musicale in pieno fermento, un continuo ribollire di progetti estremamente
interessanti e validi che, nel limite del possibile, cerco di sostenere e sviluppare
quando interpellato. Spesso rimango colpito dal punto di vista di amici all’estero o
semplicemente residenti oltralpe, sempre sorpresi dalla quantità di artisti e performer
che si muovono sul territorio ticinese. E questo non si applica soltanto alla musica
bensì a tutte le discipline artistiche.
Dall’altro lato, mi trovi estremamente rammaricato, arrabbiato e stufo. Conosciamo
bene, ahimé, la becera politica – naturalmente si tratta del mio punto di vista – che
dilaga nel nostro cantone e credo che la situazione stia diventando inammissibile per
quanto riguarda la gestione della cultura in Ticino. Senza citare eventi recenti, che
tutti conosciamo, che ancora rimangono impuniti, credo che il nostro territorio sia
soggetto ad un impoverimento e ad una deprivazione culturale estremamente
preoccupante ed allarmante. Questo processo non è recente, anzi, ha radici antiche
e purtroppo credo che la responsabilità sia di tutti, delle nostre scelte politiche e di
quello che abbiamo deciso per il nostro territorio.
Il mancato riconoscimento del sottobosco di cui parlavo in precedenza, e non
soltanto in ambito musicale, è palese ed imbarazzante per me così come la mancata
professionalizzazione e riconoscimento di professionalità, specialmente nel campo
della musica, sia frustrante e avvilente. Esperienze come La Straordinaria, per citare
la più recente e celebre, hanno evidenziato una necessità fondamentale nel cantone
eppure sembra che la politica continui a muoversi ad una velocità molto diversa
rispetto alla rapidità con la quale si muove l’arte in Ticino. Sono un grande
sostenitore del dialogo, senza dubbio, ma non riesco a vederne frutti o soluzioni. Non
posso non citare, naturalmente, il concetto di “spazio” e lo farò con un aneddoto:
qualche giorno fa un giovane musicista, parlando di spazi, mi chiedeva dei tempi del
Molino, nello specifico domandandomi: “ma quindi vorresti più spazi…tipo il Foce,
giusto?”. Questo é proprio il punto: no, assolutamente no, non è questo di cui ha
bisogno la cultura oggi.
Non voglio dilungarmi su questo punto ma non posso non ammettere quanto mi
tocchi la questione, quindi vorrei aggiungere un dettaglio che credo sia molto
importante. Se la responsabilità di questa situazione è indissolubilmente legata alle
scelte politiche e alle priorità che chi governa continua a sostenere (la butto lì, ma un
nuovo centro sportivo per la modica cifra di 182 milioni di franchi, leggo su
TicinoOnline, era proprio necessario, con tutti i rincari dei costi dei materiali che si
voglia?), dall’altro non posso non sottolineare un’altra responsabilità: la nostra.
Parlando della scena musicale, io vedo con grande rammarico un costante “tirar i
remi sulla propria barca” che si declina nell’assenteismo e nella non partecipazione.
Mi ha fatto piacere, molto, veder insorgere con rabbia il mondo della musica quando
il LongLake festival ha pubblicato un annuncio da primo d’aprile (i famosi 400 franchi
di cachet per concerto), ma una domanda mi sorge spontanea: dove siamo il resto
del tempo, quando si parla di cultura? Perché manifestarsi solo quando si parla,
direttamente, di soldi?
La questione è spinosa. Concludo con una riflessione, la più drammatica per me:
continuerò a lottare per una cultura più libera, meno turistica, più aperta e inclusiva
ma ho ben paura che al ticinese “medio”, passatemi il termine, interessi comunque di
più il nuovo polo sportivo, le sagre dell’uva, l’hockey e i politici che disconoscono i
congiuntivi utilizzando simboli del dollaro al posto delle esse.
E a questo non vedo molto rimedio, anche aprissimo 100 nuovi splendidi spazi.
La vostra musica attraversa molti generi e stili. Quali artisti o compositori sono stati formativi per voi? E oggi, cosa ascoltate? Chi, secondo voi, sta davvero cercando nuove strade, nuove forme espressive?
Gli artisti che più ci influenzano sono difficili da identificare, ma posso cercare di
creare una lista. Anche in questo caso credo che un dei lati più interessanti del
lavorare con Eleonora sia la diversificazione dei nostri ascolti – io più legato al mondo
anglosassone con Ben Howard (mio mito), Daughter, Bon Iver e, più antichi, i grandi
cantautori come Leonard Cohen e Bob Dylan, lei profondamente inserita nel mondo
del jazz (che adoro, ma che non ho mai studiato) – e la contaminazione vicendevole
che subiamo (generi come l’hip-hop, il rap e il soul-funk, per quanto apparentemente
distanti, risuonano nel mio modo di comporre e di concepire la musica). In questo
senso, e mi ricollego alla domanda seguente, anche altre discipline influenzano
profondamente la nostra creatività; il cinema, senza dubbio, e la lettura in primis.
In questo disco si percepisce una forte consapevolezza, ma anche una grande ricerca. Come ci siete arrivati?
Non sono sicuro di sentirmi “consapevole”, quasi sia qualcosa che stia agli altri,
quanto più che a me, definire nella nostra musica. Sicuramente, rispetto al passato,
sono più cosciente di ciò che ho in mano, dei miei mezzi e, forse, di ciò che voglio
fare. La ricerca, di conseguenza, potrebbe essere diventata più meticolosa, più
settoriale e decisa e forse meno dispersiva. Non mi sento consapevole ma sono
consapevole di ciò che voglio e, in un certo senso, posso fare.
Guardando al futuro, in che direzione immaginate che evolverà la vostra musica? Ci sono territori sonori o tematici che sentite il desiderio di esplorare nei prossimi lavori?
Il futuro di Terry Blue è sicuramente al fianco di Eleonora, presenza fondamentale
all’interno del duo, e al fianco dei musicisti che hanno accettato di collaborare in
Lakewoods. Fermo restando che il mondo della musica ci pone, costantemente, sfide
di natura economica, e non solo, un progetto che mi sta a cuore è quello di poter
presentare i miei brani con più musicisti sul palco, con più menti intorno a me.
Lakewoods è stato un percorso molto personale, molto introspettivo, forse ora la
necessità sarà quella di aprire le nostre porte all’esterno, a nuove idee ed approcci.
Il disco sembra attraversare temi legati alla perdita e al cambiamento, ma anche alla speranza e alla rinascita. Cosa sperate che l’ascoltatore porti con sé alla fine del viaggio che proponete in Lakewoods?
Speranza e rinascita, senz’altro, ma come dicevo in precedenza anche disillusione.
Non credo più nella musica che “fa stare meglio” e non è sicuramente, se mai ce ne
sia uno, l’obbiettivo di questo disco. Io spero, e mi auguro, di smuovere qualcosa
nell’ascoltatore, qualcosa di profondamente personale e slegato dai miei testi e dalle
immagini che questo disco crea in me. Vorrei che ognuno potesse ritrovare qualcosa
di suo, una sua interpretazione e chiave di lettura in ciò che canto e suono. Ma, allo
stesso tempo, vorrei anche che non piacesse a tutti: diffido molto di ciò che a tutti
piace, forse il centro di tutto sta proprio nel contrasto per me, nella sfida di fronte a
chi storce il naso o percepisce come “diverso” ciò che facciamo.
E per concludere con un gioco: quali tre film e tre libri portereste su un’isola deserta, da rivedere e rileggere all’infinito?
La domanda più difficile di tutte…scelgo questi tre libri: “I sommersi e i salvati” di
Levi, “Sostiene Pereira” di Tabucchi e “Memorie di un Clown” di Böll. Per quanto riguarda i film, mannaggia, ancora peggio. “Perfect Days” di Wenders, “The dead don’t die” di Jarmusch e, scusatemi ma non posso non farlo, “Blade Runner”. Perché quel sax ci ha ispirato tutti, non mentite!