I Sumac sono un trio musicale composto da Aaron Turner, Nick Yacyshyn e Brian Cook. Senza perdere tempo a ricordare quanto importanti ed esperti siano questi tre musicisti, caracolliamo, sotto una valanga di distorsioni, a scrivere che The Healer è il quinto album della band ed è uscito lo scorso giungo per Thrill Jockey.
Il supergruppo, definizione necessaria visto il pedigree dei nostri, può permettersi un approccio oltranzista e radicale al metal, grazie a capacità artistiche fuori dal comune.
Il disco è composto da quattro lunghe tracce. Sono vere e proprie suite che, immagino, saranno state registrate in presa (molto) diretta. Pur classificati nell’oscuro e abissale panorama post-metal, i nostri sono, di fatto, degli sperimentatori della materia melmosa e strabordante chiamata, semplicemente, DRONE.
Convertito dalla lettura dell’ottimo “Alla ricerca dell’oblio sonoro” di Harry Sword, non posso che pensare alla reiterazione del suono/rumore quale leitmotiv dell’intero disco.
Ogni pezzo è, di fatto, un bignami di metal alternativo: distorsioni doom, growl death, inserti ambient, harsh noise utilizzato a dovere.
In questo magma sonoro non mi è chiarissima la direzione che Turner e soci hanno deciso di intraprendere. In un certo senso, sembra di trovarsi nel bel mezzo di un ottimo esercizio di stile, se non di una prova collettiva di tre maestri della materia estrema.
“Yellow Dawn” e “New Rites” sono i pezzi brevi del lotto. Stanno, infatti, appena sotto i tredici minuti ciascuno. Con il primo che fa da “singolo” del disco, vista la struttura tutto sommato “comprensibile” e da linee meno atonali del resto del lavoro. “New Rites” è un rito post-noise di violenza mai doma. I suoni si fanno più acidi e destrutturati. Le distorsioni si fanno sempre più taglienti, fino all’arrivo al noise più feroce.
Un discorso (quasi) a parte meritano gli altri due brani, entrambi attorno ai venticinque minuti di durata. Premesso che molti avrebbero tirato fuori tre release da tutto il materiale di The Healer, per allungare brodo e attenzione, i nostri ci buttano addosso oltre un’ora di musica debordante.
L’opener è croce e delizia del disco con idee granitiche sparse qui e là e momenti di dispersione di frequenze ed immaginazione. Una traccia più divertente da suonare che da ascoltare.
La conclusiva “The Stone’s Turn” chiude o, meglio, accompagna all’uscita di un’esperienza sonora davvero impegnativa, tanto ricca di significati, quanto apparentemente inconcludente in alcuni passaggi.
E’ certo che i Sumac possono permettersi davvero di tutto e con The Healer si sono concessi di dare una lezione di musica alternativa pesante, ma anche di proporre una sfida di resistenza all’ascoltatore.