Sister Iodine – Venom (Nashazphone, 2018)

Ho verificato tramite foto e video live reperibili in rete (se vi interessa qui trovate il più recente): i Sister Iodine sono sempre un trio chitarra/basso/batteria formato da Erik Minkkinen, Lionel Fernandez e Nicolas Mazet. Il dubbio era legittimo dopo il primo ascolto di questo Venom, quarto album della band che arriva cinque anni dopo il precedente Blame: se non per brevi momenti non uno degli strumenti è riconoscibile e a produrre l’ineffabile rumore che ascoltate in questo doppio vinile potrebbe essere qualsiasi cosa; sospettavo vivamente dell’elettronica analogica. Invece no, onore alla capacità di produrre un simile casino con una strumentazione tutto sommato canonica. L’avrete capito, se i primi lavori del terzetto erano ascrivibili all’ambito del noise-rock più radicale, questo album rompe gli argini e,  portando agli estremi la concezione degli Shigtings, si propaga in ogni territorio di suono oltranzista, una tendenza già presente in Blame che qui diventa preponderante. La cartella stampa tira in ballo industrial, power electronics e addirittura black metal (è molto trasfigurato, ma fondamentalmente sono d’accordo), ma questi riferimenti rischiano di essere fuorvianti se non si pone il giusto accento sul processo di produzione – alludo in particolare alla fisicità insita nella musica del gruppo – che è fondamentale. Venom è rumore massimalista e ipereffettato a base di feedback, stridori industriali, urla distorte, clangori riverberati prodotto da tre stronzi – stronzi come solo certi francesi sanno essere – con l’unico intento di provocarvi un orribile mal di testa. Sono indifendibili, me ne rendo conto, ma devo ammettere che questo è un disco con un suo fascino e una sua ragione d’essere (e non sto parlando di semplice masochismo da noise addicted). Certo, al primo ascolto vi sembrerà solo un’accozzaglia di rumore indistinto e probabilmente sarà così anche dopo il secondo e il terzo; onestamente non so darvi una motivazione per insistere se non che, dopo un po’, improvvisamente attraversate la linea, il velo si squarcia e cominciate a capire, a distinguere delle strutture nel caos delle composizioni (?), a coglierne le sfumature (??), ad apprezzarne la poetica (???). Allora comprenderete il senso del dramma insito nell’orrendo monolite noise di Blaaack, vi emozionerete nel riconoscere una batteria all’opera in Nous Sommes Surannés (Vivons De Nos Idéaux Passés), nel capire che quel suono distorto in I’m Game e It è in realtà una voce (più o meno) umana (per la cronaca è quella di Stephen Bessac dei Kickback) e vi commuoverete nell’ascoltare una chitarra che cerca di parlarvi in mezzo alla tempesta d’acciaio di Æmbre. Forse i live dove i Kanhate avevano ecceduto con le droghe o quelli più rovinosi dei Wolf Eyes possono essere in qualche modo paragonabili, ma l’impressione è che i Sister Iodine abbiano imboccato una strada lungo cui per parecchie miglia non incontreranno nessuno. Per qualcuno sarà una splendida catarsi, per altri un orrendo cacarsi il cazzo. A quest’ultimi va doverosamente la nostra solidarietà, ma noi stiamo coi primi.