Sanguis Solaris – Migrations (Autoprodotto, 2022)

Le viscere di Parthènope ribollono di umori scuri: accade da millenni, non è una novità. Sempre nuove sono però le forme cultu(r)ali e artistiche che questi umori assumono, talvolta insinuandosi in contesti apparentemente spensierati, altre in manifestazioni più tenebrose; a quest’ultime si ascrive senza dubbio Sanguis Solaris, nome intorno a cui Alberto S. ha raccolto musicisti provenienti da esperienze non solo black (Disturbia) e non sono metal (Orchestra Esteh). Perché sì, di black metal si parla – è dunque indispensabile saper reggere l’urto di tale musica per godere appieno del disco – ma ricco di sfumature che lo portano ad espandersi in varie direzioni, coerentemente ad un concept che indaga il ritorno di antiche sapienze attraverso i percorsi di un tempo che scorre in modo non lineare. Così la musica incorpora la classica epica nordica degli Immortal, con cavalcate chitarristiche e voci indemoniate, accostandola a dilatazioni quasi shoegaze, passaggi acustici e vocalizzi puliti senza perdere spessore e, soprattutto, senza degenerare in quella fuffa post-black che tanto piace a certi sedicenti circoli estremi: qui l’estremo – se così vogliamo intendere il pensiero esoterico che permea l’opera – è nella sostanza e solo accidentalmente (ma per certi versi inevitabilmente) finisce per influenzare la forma.
Tahalluf, il brano d’apertura, ci accoglie con sonorità dark-folk e l’invito a ricordare un’epoca lontana, dove intelletto e anima erano indivisi: saranno poi le distorsioni e le accelerazioni proprie del genere a forzare le barriere del tempo per ricondurci alla visione di una nuova alleanza che possa ridare linfa all’esistenza che si trascina stancamente nel presente. L’idea di ritorno anima anche Migration Of The Shadow Sun che ricorre subito alle alte velocità e alla voce furiosa per affrontare un percorso di purificazione attraverso i quattro elementi, in un rituale dove la spiritualità sta alle melodie chitarristiche come la fisicità alle percussioni telluriche. Questa dialettica degli opposti è un altro dei temi ricorrenti dell’EP e la ritroviamo in I Am Black But Comely, che si apre con un recitato dal Cantico Dei Cantici per poi evocare, con cadenze degne del dark metal di Paradise Lost o My Dying Bride, il potere della luce di accecare e annerire, prima che una nuova sfuriata ci riconduca sull’orlo dell’abisso. A sigillare un disco breve (appena 23 minuti), ma dal peso specifico elevato, è The Sun Below: ancora una visione di estremi fin dal titolo, per un pezzo che si sviluppa, attraverso riferimenti che vanno dai testi biblici alla cultura vedica, in un crescendo apparentemente senza fine, che si placa solo per dar spazio a un recitato dai toni drammatici prima di un finale quieto, ma che sa di attesa.
Dal litorale dei Campi Flegrei i Sanguis Solaris assimilano sapienze e filosofie disciolte nelle acque di un Mediterraneo mai così scuro, dando vita a un’opera che richiede ascolti ripetuti e approfondimenti che vanno ben oltre la musica (trovate qualche suggerimento sulla pagina Instagram): per certi versi, Migrations funziona come un ipertesto che guida l’ascoltatore in un percorso ostico ma assolutamente appagante. E in questo, nonostante quanto detto all’inizio, si qualifica come un lavoro capace di suscitare l’interesse anche dei non avvezzi al genere.