Non vale il gelo e una spruzzata di neve a tenere lontani gli afecionados da una delle prime serata live dell’Interzona di quest’anno, che accosta ai Ronin, in tour per presentare il nuovo disco Fenice, i local hero De Curtis, che proprio nei giorni precedenti hanno terminato le registrazioni del secondo album. Certo, senza il maltempo le presenze sarebbero state probabilmente maggiori, ma anche così l’Interzona fa finalmente la sua figura.
Ad aprire è il progetto Restless Y. Flowers, ma immemore dei precoci orari dell’Interzona (in realtà ottimi, una volta abituatisi, dato consentono di rincasare a orari decenti anche se si sta distanti) me lo perdo completamente. È un peccato, perché chi era presente racconta di ottime cose; speriamo di aver modo di rimediare in futuro. Quando entro nella sala i De Curtis hanno da poco dato il via all’esibizione. Mi aspetto qualche anticipazione del nuovo e sarò accontentato, ma anche i pezzi vecchi appaiono fin da subito rivisti in modo piuttosto radicale, più spigolosi e quasi fusion, grazie soprattutto all’apporto di sax e tastiere. Quelli nuovi invece hanno i tratti negri ancora più marcati, specie in un pezzo in levare che ben avrebbe fatto da commento agli scontri del Carnevale di Notting Hills nei ’70. La sensazione è quella di essere in pieno retro-futurismo (ma sarebbe più calzante definirlo retro-modernismo) dove il suono vintage viene montato su strutture dilatate assolutamente attuali. Il gruppo ideale per musicare qualche film di Terry Gilliam. Per il resto i De Curtis si confermano con una musica in equilibrio fra difficoltà e fruibilità, ma decisamente ben accolta dal pubblico. Nota di merito per l’ex Rosolina Mar Bruno Vanessi, chitarrista sempre più estatico da cui ci aspettiamo, nelle prossime date, qualche fenomeno di levitazione. Il finale, veemente, vede il tastierista abbandonare il suo strumento per una seconda chitarra, salutandoci con il pezzo più muscoloso della serata. C’è un quarto d’ora di pausa fra la loro esibizione e quella dei Ronin e io aspetto un attimo di troppo nel decidere di andare al bar a prendere qualcosa da bere. Muovo il primo passo allo scoccare della prima nota mi travolge e una volta riuscito a procurami una bevanda non riuscirò più a riconquistare la posizione iniziale: pace… Il quartetto è sempre lui (come il Marlon Brando della canzone dell’ignobile Ligabue), ma sempre diverso (come l’insopportabile Apicella di Palombella Rossa). Più scarni rispetto al disco, ma questo già lo sapevamo, confermano ciò che traspariva dall’ascolto di Fenice: il gruppo ha talmente praticato questo genere fatto di tex-mex, post-rock acustico, musica balcanica, cantautorato (senza voce!) da farlo proprio. Le influenze non si distinguono più, ma tutto è frullato in quello che è lo stile-Ronin, in cui, questo sì, ognuno può trovare gli echi più diversi. Fra le voci che sento in giro, qualcuno ci ha sentito i Karate degli esordi, altri i Codeine altri ancora addirittura gli Iron Maiden (OK, quest’ultimo sono io…). Il nuovo batterista si è inserito alla meraviglia e in questa versione live sembra calcare la mano in maniera nient’affatto spiacevole, dando a molti pezzi un accento buono a ribadire che perché i Ronin restano comunque un gruppo rock. La scaletta verte in buona parte sui pezzi dell’ultimo album, col singolo Selce e il malinconico pezzo omonimo sugli scudi, ma c’è spazio anche per i ripescaggi, come l’antico Ronin Theme. Ogni tanto, nelle pause, Bruno Dorella fa lavorare il microfono della voce, altrimenti inutilizzato, per ricordare i vecchi concerti davanti a quattro gatti o richiamare storie di gioventù, buone a rimarcare quanta strada abbia fatto lo spirito hardcore dei ’90, giusto prima di sparare una versione di Venga La Guerra, mai così vicina ai Wretched (ma a questo punto mi sarei aspettato più una Bleedingrim). Si conclude con un solo bis, richiesto dall’applauso del pubblico già sparuto, forse desideroso di riprendere la via di casa, dato che durante lo svolgimento del concerto le condizioni meteo sono decisamente peggiorate. Così faccio io, appena spentosi l’ultimo accordo. Una fuga da prete.
Foto di Elena Prati
Foto in homepage di Emanuela Vigna