Parallel 41 – Parallel 41/Faraway Close (Baskaru, 2012)

Parallel 41 sono Julia Kent (violoncello) e Barbara De Dominicis (voce ed effetti). New York e Napoli. Due città così distanti, unite alla stessa latitudine, dal 41mo parallelo, una linea immaginaria che congiunge due esperienze, fatte di sessioni di registrazione, molto spesso legate al contesto e poco disposte e rimanere chiuse nel formato del disco: sonorità umorali, estemporanee, a volte inquietanti, spesso  prese in ambienti  aperti, inospitali, che cercano di catturare, tramite fields recordings, loops, violoncello e idrofoni un’esperienza visiva/emotiva durata l’arco di dodici mesi (tra il 2009 e il 2010). L’ennesima esibizione che mi sono perso l’anno scorso all’arci Casbah a Pegognaga, ma sorvoliamo. Un approccio molto difficile quanto ambizioso, tanto studiato nei dettagli nella post produzione, quanto lasciato all’improvvisazione delle sensazioni durante il tragitto, fra location o spazi suggestivi come stabilimenti abbandonati, gallerie di montagna, vecchi casolari e la fortezza di Forte Marghera. Questa interazione di luoghi scardina, o cerca di scardinare, dicevamo, il concetto di album proiettandosi sempre sull’ambiente, sullo sguardo.
Da qui il lavoro in cd/dvd dove Faraway Close diventa il racconto, audio/visivo appunto, di questa esperienza. Uno splendido docufilm curato da Davide Lonardi – il quale si è occupato anche dei visual nelle performance live del duo oltre che dell’artwork del digipack – che coglie i vari momenti di questa esperienza con immagini davvero affascinanti in cui a farla da padrone è lo spazio e le protagoniste che vi interagiscono. Tra vuoto e pieno/ rumore e silenzio. Si dialoga, si riflette in contesti partenopei come in aree metropolitane affollate; in mezzo a mercati, dentro appartamenti che evocano la Manhattan bene ed il design. Un lavoro che sulla carta è monumentale, non nascondo che non sapevo neppure da che parte iniziare, vista la mole di materiale audio/visivo da consumare e la lunga e curata press sheet. E’ difficile limitarsi alla musica che nasce, in sostanza, dagli spunti che l’ambiente suggerisce come fosse un sussurro (Naked City), un rumore di foglie o l’eco di una metro o urla stridule (in Une Journeè d’un Sud Sans Soleil ho dovuto abbassare di colpo il volume al minuto 4.15 perchè i muratori fuori se la ridacchiavano pensando guardassi un film a luci rosse). Un progetto ambizioso, quindi, da elogiare forse più per l’intento che per il risultato, fatto di sensazioni audiovisive difficili da catturare e dai risultati poco tangibili, ma altrettanto affascinante e degno di attenzione, superata una certa ritrosia iniziale.