Egregio signore, mi creda, dissi al mio occasionale compagno di viaggio: avanguardia non è uno spazzolino da denti sbattuto sulle corde di un violino, né un glissando di ottoni, né una provocazione o una ideologia, né tantomeno la scoperta di armonici artificiali, né la cronaca sublime della schizofrenia del nostro tempo o, ancor peggio, una rarefatta e raffinata atmosfera cangiante per timbri interstellari, lunari, o come si vuole.
Non potrebbe invece essere un profondo stato dell’essere?
Un percepire e riconoscere il disegno delle leggi che governano la materia e la sua evoluzione?*
Franco Battiato è stato, senza ombra di dubbio, uno dei più grandi compositori e ricercatori spirituali del ‘900. La sua ricerca ha segnato profondamente moltissime persone, appartenenti a generazioni ed estrazioni diverse, anche perché, a un certo punto, ha deciso di farsi Pop senza perdere un briciolo di intensità e visione. Mancato da quattro anni – o meglio, partito per un nuovo viaggio – in molti, moltissimi, hanno sentito la necessità di omaggiarlo, chi in maniera sincera e chi meno.
Dunque, ogni volta che ho notizia di un omaggio o di una riproposizione delle sue opere, mi avvicino con cautela e un certo scetticismo. Fino ad oggi, gli unici artisti che hanno riproposto Battiato in maniera credibile – a dire il vero già molto prima della partenza del compositore per galassie interstellari – sono stati Fabio Cinti e Carlo Boccadoro. Cinti, per la sua vicinanza all’artista e per il suo modo di porsi, sincero e rigoroso, capace di farsi strumento e tramite. Boccadoro, per la sua straordinaria capacità di reinterpretare le opere classiche di Battiato con rispetto e profondità, mantenendo intatta la loro essenza ma donando loro una nuova luce. Entrambi hanno compreso che l’omaggio non sta nel semplice rifacimento, ma nella capacità di entrare in sintonia con l’anima di quella musica.
Fino a ieri, pur essendo uscito da mesi, non avevo ancora ascoltato nulla del progetto Padre, fammi partire!, anche se i segnali erano molto buoni. Molti musicisti che stimo da tempo erano presenti nella tracklist, e la scelta dei brani, così come le composizioni originali, mi lasciavano intuire che fosse stata trovata la chiave giusta per un’operazione al contempo difficilissima e necessaria. La conferma l’ho avuta domenica sera in una Milano incerta se perpetuarsi inverno o farsi primavera.
Più che il tipo di esecuzione o reinterpretazione, secondo me conta lo spirito con cui ci si avvicina all’opera di Battiato. Questo vale per qualsiasi artista, ma nel suo caso forse un po’ di più, perché la sua musica si muove tra il visibile e l’invisibile, è spesso un’invocazione o la ricerca di un’illuminazione. Insomma, più che musica, è un mistico dispositivo di crescita e approfondimento.
Sono arrivato giusto in tempo, prima che iniziasse il concerto e si spegnessero le luci. Va detto che, ora che Spazio BK e Volume si sono virtuosamente fusi, VolumeBK è diventato un luogo irrinunciabile per scoprire e riscoprire quanto la cultura possa essere potente e importante per il cambiamento. Un luogo davvero magico. Magico era anche l’ambiente in cui si è svolto il concerto: una sala interna, nascosta oltre scaffali di libri e dischi, illuminata da un paio di neon viola e due grandi lucernari tondi in alto sul muro. Nella penombra, sembrava di trovarsi all’interno di un sottomarino o di una navicella spaziale, ed effettivamente ci siamo inabissati o elevati, seduti su tappeti e cuscini, tutti stipati ad ascoltare Nicola Ratti, Francesco Fonassi, Donato Epiro, Emiliano Maggi e Lucie Page.
Si fa silenzio, inizia il rito. Come in ogni rito che si rispetti, c’è una fase iniziale di assestamento, di leggero spostamento verso l’altrove. Qui, Ratti, Fonassi, Epiro e Page cominciano lentamente a tessere un tappeto sonoro, qualcosa che, pur suonato oggi, non poteva non ricordare Terry Riley e La Monte Young. Il suono cresce lentamente, inesorabilmente, e con lui quel sapore mediterraneo che solo i dischi di Battiato, e forse solo Luciano Cilio, sono riusciti a cogliere.
Un grande apporto è arrivato dal violino di Lucie Page, con la sua presenza-assenza, il suo fraseggiare tra il qui e l’altrove. Mi ha ricordato Telegrafi, brano presente in Juke Box del 1978. Mentre Fonassi, con quello che mi è sembrato un Korg MS-20 e dei nastri, creava bordoni e reiterazioni che a tratti erano il cuore pulsante della materia sonora che investiva i presenti, Ratti, con i suoi modulari, intesseva e colorava una natura cangiante, trasportandoci nei giardini della preesistenza, in una situazione estatica di assenza di tempo. Epiro, con un vecchio Casiotone dalla pasta sonora quasi commovente, regalava e intesseva anche lui accordi che profondamente ricordavano quelli che sempre si presentavano nelle partiture del compositore di Jonia.
E poi, proprio quando tutto cominciava a prendere una forma cangiante e luminosa, è entrato in scena Emiliano Maggi. Con grande garbo e rispetto, ha iniziato a cantare. E il suo è stato un canto puro, una nenia antica eppure moderna. A quel punto, davvero, eravamo pronti per viaggi interstellari.
Il cuore della questione è proprio questo: per omaggiare Battiato non si deve semplicemente suonare Battiato, ma scendere lentamente in se stessi, emozionarsi, portare in superficie il proprio percorso e riconoscere quanto, in esso, i mondi, le filosofie, i suoni e le verità che Battiato ci ha regalato siano stati importanti. Ed è stato così per questi cinque artisti umili e talentuosi.
L’operazione è riuscita. Quando l’atmosfera si è fatta calda, intensa, pregna di sentimenti e di abbandono alla potenza del suono, tutto di colpo è finito. Ed è giusto così.
È stata un’esperienza intensa, da cui ognuno porta via un pensiero, una vibrazione, una sensazione. Siamo stati un percorso. Siamo stati vibrazione, siamo stati parte di una lode.
Come Battiato, in meditazione nel suo giardino, con lo sguardo rivolto al vulcano, abbiamo percepito profondamente che era venuto il momento di partire. E di scegliere una nuova vita.
*da Uno sguardo dal ponte dello stretto di Messina di Franco Battiato