Se Discogs non ci inganna dovremmo essere al diciassettesimo album tra dischi, nastri e box inediti per gli Oneida. Ma non ci importa, così come di certo non importa a loro, considerando che iniziano Reason to Hide come fosse lo strumentale che li porterà alle barriere dell’inferno per iniziare a cantare soltanto dopo quattro minuti buoni, il ponte della nave ormai già prossimo alle onde. L’incedere che il quintetto promuove a questo giro è psichedelico e massiccio senza mai diventare gonfio, anzi, mantenendo una linearità snella ed acuta che sembra essere il baricentro del disco stesso. Maltrattano addirittura la lingua francese in una squinternata La Plage tirata a rotta di collo, mentre buttano all’aria il deserto con una Stranger cruda e secca.
Il riuscire ad agire su un breve minutaggio (tutti i brani eccetto il primo e l’ultimo sono entro i 4:22 minuti) dona all’album un dinamismo ispirato, una verve garage che sinceramente non riconoscevo alla band e che riesce a trasformarli a tratti in una macchina agreste rock’n’roll conservandone orecchiabilità e scrittura pop (perfetta in questo senso Here It Comes). Ma c’è spazio anche per una sinistra e dark Expensive Air che mette i brividi ed una Salt che esaspera synth e tastiere in un acre tono acuto che trasuda da un rancido treno rock’n’roll. Nel finale si ha ormai il sentore di come gli Oneida riescono agilmente a calpestare il cadavere del rock odierno in maniera del tutto naturale, rielaborando stilemi che da certa psichedelia californiana guardano al rock desertico in una cavalcata, Gunboats, che ci riporta gli Oneida in un mondo tutto loro, scassone ed aperto, in grado di estrarre magia da un suono crudo come vodka da una patata.