Pensando ai Niton e ascoltandoli, li ho sempre associati a qualcosa di arcaico e potente. Il loro suono mi è sempre sembrato perenne e inscalfibile, come un menhir esposto a tempeste e cataclismi, che rimane immutato e luminosissimo, di una luce ultraterrena. In questo nuovo capitolo del loro viaggio multidimensionale, hanno deciso di collaborare con artisti diversi in ogni brano. Questo mi è sembrato subito un azzardo, un rischio, una pratica di apertura che avrebbe potuto forse scalfire l’asteroide lunare di cui è fatto il loro suono. Ovviamente, mi sbagliavo.
Corde tirate, sfibrate e mandate al contrario aprono il disco. Subito, su questo tappeto per viaggi astrali, compare la voce salmodiante di Meryem Aboulouafa, che sembra intonarsi sulle sacre sinfonie del tempo. Tutto si stratifica e si muove in un rituale apotropaico che, grazie al potere intrinseco del suono, tenta una nuova via di redenzione e ascesi. I quattro minuti di Noi ci catturano e ci stregano, grazie anche alle ermetiche parole di Vanni Bianconi. Ci fa partecipi di un segreto che non riusciamo a decifrare, ma da cui ci sentiamo irrimediabilmente visitati. È uno dei brani più intensi ascoltati quest’anno, che mi fa pensare alle estasi sonore di La Monte Young e Giacinto Scelsi, chino in un interminabile improvvisazione sulla sua ondiola.
Ho avuto il privilegio di ascoltare Julian Sartorius dal vivo e di rimanere stregato dal suo approccio assolutamente libero e consapevole al ritmo. Dalle prime battute di questa seconda composizione, Spin Orbit Interaction, rimaniamo col fiato sospeso, a rischio di asfissia, fino alla fine del brano. Le percussioni sono in costante mutazione, sembrano seguire una logica che si scopre battito dopo battito, e i tre membri di Niton sono lì, pronti a questa sorta di improvvisazione figlia superba della Organic Music Society di Don Cherry. Un brano che potrebbe dilatarsi fino a diventare un disco, un concerto o un paesaggio sonoro potenzialmente infinito. Sintetizzatori, percussioni e corde sono qui, ora per noi, per mostrarci che realmente il tempo non esiste e che, in casi unici e fortuiti, lo si può piegare alla propria volontà.
In Lampo, il lavoro prosegue sullo spazio e sul riverberare del suono, dentro e fuori di esso. Una profonda ed essenziale pulsazione è lo scheletro di un impressionante affresco per violoncello, fiati, percussioni e sintetizzatori. Potrebbe essere la colonna sonora immaginaria delle deambulazioni bourroughsiane tra le strette e labirintiche viuzze di Tangeri. Anche qui, come in tutto il disco, c’è una concezione del tempo slegata da preconcetti, ma allo stesso tempo rigorosa. Il violoncello di Zeno Gabaglio apre squarci di luce quasi accecanti. L’andamento e gli umori cambiano spesso e repentinamente, senza però che la composizione perda un briciolo di coerenza con se stessa, anzi, questo la rende una sorta di composizione-mondo. Notevole l’apporto di Boris Hauf nel rendere preziosa la trama del brano, come fosse un tappeto persiano dedicato alla preghiera.
Il sax di John Butcher apre I Was Dying, con il suo stridore metallico e umano allo stesso tempo, come se fosse una creazione alchemica più che uno strumento. Ci accompagna in un ennesimo nuovo e stupefacente paesaggio, costituito da talmente tanti elementi che lo fanno sembrare un vero e proprio paesaggio, con tutto quello che di atmosferico, materico, tangibile e intangibile può formare ciò che ci sta attorno. Il senso di inquietudine è tangibile e crescente, ma è quella stessa inquietudine che potremmo provare se fossimo lo Stalker che visita la Zona tarkovskiana. È una composizione che, grazie a questa inquietudine, diventa un oggetto perturbante, che ci ammalia e ci porta irrimediabilmente a sé. Nel minuto conclusivo, poi, sintetizzatori modulari, fiati e uno scacciapensieri, come in uno stacco di montaggio degno di Jean Luc Godard, cambiano completamente tutto, lasciandoci piacevolmente turbati.
Peter Kernel e Niton si uniscono per dar vita a Everything Everywhere. Qui, è inutile dire che le aspettative sono altissime, anche solo perché ci troviamo di fronte alle due realtà ticinesi con un percorso e una visione in costante crescita, che hanno generato negli anni opere uniche e potentissime. Le due entità sonore qui si fondono, diventando una sola, suono puro, vibrazione, pulsazione cosmica. Il brano è esplosivo, il supporto su cui lo ascoltiamo, le nostre orecchie e la nostra mente, non sono pronte alla gestione di tutto questo. Il supporto non basta. Questa musica ha bisogno di esistere e di essere liberata nello spazio e nel tempo. Dovesse mai accadere che queste due forze si liberassero all’unisono dal vivo, sono certo che correremmo il rischio di aprire un varco spazio-temporale, o almeno di essere investiti dall’energia di un tornado sonico, senza che questo, per fortuna, ci uccida, ma anzi, ne usciremmo certamente migliori.
In 11th February 1901, a Letter from Niton, Olivia Louvel, con fare sicuro ed evocativo, ci accompagna in una passeggiata in un bosco fatto di cigolii e segnali radio che sembrano arrivare direttamente da un’altra galassia. I Niton ci portano nel mondo visionario e futuristico di Guglielmo Marconi, mentre i musicisti tessono trame fatte di onde sonore. La voce della Louvel si espande e frammenta, come fosse una pellicola di Stan Brakhage. Tutto si muove tra allucinazione, visioni del futuro e del passato.
Antiopes Kraftfeld, la settima composizione, parte da subito bruciante e schizofrenica, come se ci trovassimo su un disco della Tzadik o direttamente in un riverbero dilatato dei Naked City. La ritmica poi si fa tribale e pressante, come se ora ci trovassimo su uno dei primi dischi dei fratelli Cavalera. Ma poi i ritmi, gli accenti e le cadenze cambiano ancora e ancora. Le magiche bacchette di Beatrice Graf trascinano i tre polistrumentisti in una forsennata e entusiasmante corsa verso l’ignoto.
Un sax che sembra essere cento, un suono profondo e fortemente evocativo, lunghe note tenute sino allo stremo delle forze sono quelle che ci regala Andy_Bluvertigo nell’incipit di Ambieterni. Ma poi, come era immaginabile, tutto diventa oscuro e a tratti luminosissimo. I quattro musicisti, a loro agio come in una lisergica seduta di meditazione tenuta dal professor Timothy Leary, ci portano in un altrove fatto di tinte cangianti e abbaglianti, in un territorio sonoro che sembra muoversi tra l’ultimo Pharoah Sanders che incontra l’elettronica e uno dei più importanti dischi italiani (e non solo) degli anni ’90: Zero dei Bluvertigo.
La chitarra trattata, preparata, maltrattata e trasformata di Andy Moor apre il penultimo brano Huellas Infinita. Anche qui, come in tutti gli episodi precedenti, la percezione da subito non è quella di un musicista che si aggiunge a una band, ma quella di un unico fascio sonoro, di stratificazioni di rumore che via via crescono, si fermano, esplodono e ripartono. Magistrale è la gestione dei due poli estremi di rumore e silenzio. Pur con le grosse differenze, abbiamo la sensazione di trovarci nello studio di Sua Maestà Lee Scratch Perry, che prende fuoco e si frammenta per un rituale finito male. Gli strumenti sembrano vivere di vita propria. Se un poltergeist potesse avere un suono, sarebbe certamente quello di questo brano.
Les Larmes Vont Couleur è l’ultimo passaggio di questo rito sonoro di purificazione ed elevazione che è il disco dei Niton. Su un profondo drone di sintetizzatori e archi, Achille Ateba Mvondo scolpisce suoni e fonemi che sembrano arrivare dal Paleozoico. Sembra chiamare a sé e agli officianti che lo accompagnano forze oscure e pericolose, nella convinzione di poterle piegare con la sola forza del suono. Dopo circa un minuto, siamo in un tornado sonoro che non sembra volersi placare per nessun motivo al mondo. Ma poi, di colpo, come se il rito stesse davvero funzionando, siamo in una dimensione diversa, dove camminiamo su tappeti di sintetizzatori, mentre la voce canta una nenia ripetitiva e finalmente pacificata. Le cose sono andate bene, siamo salvi!
Niton sono Zeno Gabaglio, Luca Xelius Martegani e El Toxique. Niton dimostra con questo lavoro di essere un insieme prodigioso di sensibilità e visioni, un dispositivo sonoro per viaggiare, cambiare e farsi altro, per tornare realmente a se stessi. Di realtà sonore così potenti, tecnicamente sapienti e capaci di farsi tutto rimanendo profondamente se stesse, ne ho incontrate pochissime.
Photo by Veronica Colonnello