Nero And The Doggs – Death Blues (Rocketman, 2013)

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Probabilmente è vero che di musica non capisco un emerito cazzo. Ma allo stesso tempo credo che non serva un dannato pedigree da critico blasonato per riconoscere un bel disco, quando qualcuno te lo mette sotto il naso. L’altro giorno, per esempio, nella cassetta delle lettere mi è arrivato, dentro una busta gialla in posta prioritaria, l’ultimo lavoro di Nero And The Doggs, che volendo fare i precisini è anche il primo inciso con questa nuova ragione sociale.  Già perché fino all’album precedente la band in questione – originaria dei bassifondi di Milano – si chiamava semplicemente The Doggs, mentre adesso – un po’ com’era accaduto a Iggy And The Stooges, ma il copyright di questo accostamento è di Andrea Valentini – i nostri hanno deciso di mettere in prima linea il loro leader e cantante. Anzi forse è stato lo stesso Nero che, in qualità di anima oscura della band, ha voluto rimarcare a ferro e fuoco il proprio ruolo di trascinatore. Comunque: fatte le dovute presentazioni ed entrando nel vivo di questo torrido album intitolato guarda caso Death Blues bisogna ammettere che l’accostamento con l’Iguana e i suoi compagni di sconfitte è più che mai azzeccato, anche sul fronte musicale. Il garage rock sferraggliante del cd precedente è solo un ricordo. Non troppo sbiadito, sia chiaro, ma neppure così evidente. Adesso Nero e i suoi cani rabbiosi hanno deciso di incanalare la loro furia iniziale dentro una manciata di liriche tossiche e malate, regalandoci, sul fronte sonoro, dieci pezzi di rock’n’roll triste e amaro, fatto di ballate elettriche e molto blues (più nell’anima che nei suoni). E così questo disco assomiglia più alla colonna sonora di una sconfitta, che a una raccolta di canzoni rock per giovani ribelli. Un lamento per chitarra, basso e batteria, che ti prende alla bocca dello stomaco e che ti esplode nella testa. Ogni canzoni è un funerale punk (provare per credere Feel The Death e il suo rantolare ossessivo). Anche quanto i suoni diventano più robusti e la ferocia della band esplode in mille rivoli di dolore (Sweet Confusion) la sensazione di inadeguatezza e frustrazione che fuoriesce dalle casse dello stereo è piuttosto lampante. E’ quasi impossibile restare indifferenti a questa decadenza senza fine, a questo vicolo cieco di suoni. Pezzi come la conclusiva Back To The End e il lentone (come potrebbe esserlo un lentone dei Saints) Damadeg Love sono coltelli affilati che ti entrano dentro la carne. I riferimenti italiani che mi sembrava di aver colto un paio d’anni fa, sono finiti nel cesso. E questo disco potrebbero averlo partorito in qualsiasi epoca e in qualsiasi continente. Un  sorta di garage della crisi, esistenziale ed economica. Anche se, a parte le solite chiacchiere, Death Blues è sostanzialmente un gran disco.