Musiche per il tempo del bosco

“Il compito della guida spirituale è condurvi il discepolo per liberarlo dalla paura.
Il bosco lo fa morire e rinascere simbolicamente. A un passo dall’annientamento c’è il trionfo.
Chi ha inteso questo, sa innalzarsi al di sopra la violenza temporale.”
Ernst Jünger

Se amate stare all’aperto, l’autunno – che ormai si prolunga anche oltre i confini dell’inverno astronomico – è certo la stagione migliore. Il freddo non è ancora eccessivo, la luce più tenue e il crepuscolo precoce alterano i colori di piante e cespugli che sfoggiano tutte le possibili tonalità calde e nei boschi i sempreverdi si stagliano contro le sagome di quegli alberi che, avvolti dalle prime foschie, vanno spogliandosi in preparazione dell’inverno. In questo periodo addentrarsi per i sentieri diventa un’esperienza assoluta dove la vita e la morte, convivendo con un senso di normalità che ormai ci è estraneo, rivelano con più evidenza l’essenza dell’esistere: lontano dal simbolismo consolatorio della primavera il perdurare delle conifere si accompagna al sonno di alcune specie e alla morte di altre, evento indispensabile alla vita di altri organismi. Non è semplicemente una metafora della ciclicità del tempo, è realtà in cui immergersi, da toccare con mano e conoscere a un livello che va al di là del razionale. In questa istintualità il legame con la musica è evidente e poiché l’esperienza del bosco non può limitarsi al momento dell’attraversamento ma ne investe inevitabilmente il prima e il dopo, quello che proveremo a fare qui è dire di alcuni dischi recenti accomunati dall’avere il mondo vegetale come fonte d’ispirazione. Non musica da ascoltare nel bosco ma piuttosto musica che porta il bosco da voi, per i momenti precedenti all’addentrarvisi o per quelli successivi, del riposo e della riflessione.

In questa operazione di avvicinamento è giusto partire da lontano con Steve Von Till che, nelle vesti sciamaniche di Harvestman, ibrida il folk con le dilatazioni del kraut e del post-rock per riportarci al tempo del primo incontro fra l’uomo e il bosco. Associare il titolo del suo ultimo disco, Music For Monoliths (Neurot, 2017), a quello del primo brano in scaletta, The Forest Is Our Temple, è come ritrovarsi nelle prime pagine di Mitologia Degli Alberi di Jacques Brosse dove si ricorda come pietre ed alberi sacri fossero tutt’uno nella maggior parte delle culture tradizionali; nei solchi del disco, concepito a Coeur d’Alene (North Idaho) con la foresta alle spalle e il lago Harrison di fronte, si respira proprio la sacralità che certi spazi devono aver ispirato agli antichi e che possiamo ritrovare con la nostra sola presenza sui luoghi. Nei boschi evocati da Steve Von Till non ci sono spiriti, il sacro è percepibile coi sensi e si riflette in un suono che di volta in volta è ruvido come la corteccia (Sundown), luminoso come le macchie di sole che filtrano fra i rami (Cromlech), morbido come il fruscio del fogliame (Oak Drone, Rings Of Sentinels), purificante come una radura (Levitation).

Uno sguardo diverso e minuzioso, in bilico fra scienza primordiale e poesia, è quello che ci propone la compilation The Folklore Of Plants (Folklore Tapes, 2017), un erbario sonoro di 31 composizioni accompagnate da saggi illustrati sugli usi, sulle tradizioni e sulle leggende di altrettante specie vegetali. Qualcuna ci parla direttamente attraverso field recordings uniti al suono di strumenti per lo più acustici, altre prendono vita nella musica che ne interpreta lo spirito attraverso i generi più disparati, fra delicate ballate (Delphine Dora, Magpahi), ruvide filastrocche (Hugh Metcalfe), veloci narrazioni (Zoe Naylor, Hannah Leighton Boyce) e stranezze assortite (Carl Turney & Brian Campbell, Stu Bannister). Sono pezzi brevissimi (quasi tutti compresi fra il minuto e mezzo e i due minuti) ognuno ispirato da un’erba o da una pianta, che fanno correre il nostro udito/sguardo dall’una all’altra con il fare del conoscitore appassionato più che del biologo, fino a risvegliare la meraviglia per un microcosmo capace di parlarci e regalarci sensazioni che credevamo dimenticate. Nell’intenzione dei curatori oggi è “il momento di adattare le vecchie credenze per creare nuovi incanti” che possano curare la depredazione psichica a cui il mondo digitalizzato di oggi ci sottopone. Folklore Of Plants ci suggerisce che seguire una via nel bosco può anche voler dire tracciarne una nel presente.

Poiché l’eremita Splinterskin non ci ha ancora regalato il seguito all’ottimo Wayward Souls (Cold Spring, 2009) e vi abbiamo già detto in sede di recensione degli italiani Murmur Mori e del loro Radici (Casetta, 2017) – disco d’incontri con splendidi personaggi silvani e attraversato da quell’idea di compenetrazione fra vita e morte di cui dicevo all’inizio – è Fletcher Tucker, all’esordio a suo nome dopo alcune uscite come Bird By Snow, a raccogliere il testimone e a tenere alto il vessillo del folk in questi frangenti; tutt’altro che un ripiego, in effetti. Cold Spring (Gnome Life, 2017) nasce da sette anni di semi-isolamento a Big Sur, regione montuosa della California centrale, ed è in realtà un folk molto sui generis che trascura la chitarra acustica e accompagna spesso la voce con organo, synth, droni e suoni naturali che ricollocano la tradizione in un presente atemporale. I boschi di Cold Spring sono luoghi liminari, spesso notturni, dove ci si avventura guidati dalle grida dei coyote e dei gufi e dove ogni elemento sembra rimandare a qualcos’altro, qualcosa che è un passo oltre il velo di nebbia che spesso ricorre nei testi e nei suoni. Nel disco si può leggere la narrazione quasi diaristica dell’esperienze dell’autore ma soprattutto un manuale per approcciarsi al bosco (e forse a tutta la vita): abbandono di ogni consapevolezza per fondersi con il tutto, riscoperta della lentezza, accettazione dei limiti.

Visto il tema che ci siamo dati non è possibile concludere senza chiamare in causa quel black metal che del bosco ha fatto luogo d’elezione e ispirazione nonché set fotografico d’eccellenza, suscitando spesso l’ironia – non del tutto ingiustificata – di molti. È Tuttavia indubbio che l’approccio alla materi sia in molti casi sincero e ad elencare anche solo i migliori dischi del genere a tema boschivo non si faticherebbe a riempire un volume di discreto spessore. Venendo all’oggi, troppo scontato è parlare dei Throne In The Wolves Room tornati su buoni livelli col recente Thrice Woven (Artemisia, 2017), disco affollato di animali selvatici e scorci naturali, ci dedicheremo invece agli ucraini Eskapism e al loro esordio dal titolo più che mai significativo: Tales Of The Elder Forest (Wolfspell, 2017). Provenienti da una delle zone europee anticamente più ricche di foreste, traducono in un black metal ruvido nei vocalizzi ma con frequenti aperture melodiche l’idea della natura come forza primordiale che attraverso il ciclo delle stagioni lega inesorabilmente vita e morte (Замовкли Ліси /Becalmed Wood, Дивувалась Зима/Wondering Winter) e della quale il bosco è testimone privilegiato. Nell’album è tuttavia forte anche l’idea che querce, corsi d’acqua e rocce siano una patria da difendere (..І Рунами Ти говориш../…You’re Talking By Runes…) secondo l’insegnamento dei padri: d’altra parte alcune melodie sembrano riproposizioni elettrificate del folklore locale e i testi, in lingua madre, incorporano frequenti citazioni dei poeti ucraini Ivan Franko e Lesia Ukrainka. Qui il liberarsi di un fiore dalla neve è un evento altamente drammatico, il sorgere della luna nel cielo notturno ha un che di tragico e ad accompagnare il sonno autunnale del bosco è una marcia funebre dall’incedere epico; tutti eventi a cui assistiamo da spettatori impotenti ma dei quali siamo inevitabilmente parte: piccoli eppure forti dell’essere inseriti in questo grande circolo.

È con loro che il nostro percorso si conclude: “Il disco solare brilla per l’ultima volta,
Il bagliore sta sparendo, scintillante e ardente, i boschi diventano silenziosi e pieni di foschia e per l’ultima volta il silenzio è rotto dal grido d’addio degli uccelli migratori” (Падає Сонце В Осінні Обійми/The Sun Is Falling Into Autumn Embrace). È arrivato l’inverno, ma questa è un’altra storia. E altre musiche.