Morose/Campofame – Cinque Pezzi Facili, Volume 4 (Under My Bed, 2012)

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Il penultimo capitolo della serie Cinque Pezzi Facili ospita due graditi ritorni: quello dei Morose, che dopo La Vedova Dell’Uomo Vivo non si erano più sentiti e quello dei Campofame, di cui serbavamo un buon ricordo dai tempi della storica compilation della Wallace P.O. Box 52. Oggi, dopo alcune uscite con formazione allargata a nome In My Room, rispolverano l’assetto e la ragione sociale originale.
Che il passaggio al cantato italiano indirizzasse i Morose verso un cantautorato decadente, era intuibile; che il gruppo, nel giro di pochi anni, potesse giungere fino a questo picchi d’espressività, era invece difficile prevederlo. Rispetto all’album d’esordio nel nostro idioma, questi brani dimostrano una raggiunta maturità sia a livello lirico, sia nella capacità di far sposare musica e parole. Ormai la band di Davide Landini e Pier Giorgio Storti padroneggia il linguaggio con una perizia e una profondità tali da far pensare di aver praticato questa materia da sempre. Landini sfoggia con naturalezza una voce da crooner consumato, con cui racconta poesie dolenti e crudeli, il gruppo lo segue orchestrando alla perfezione chitarre, tastiere, archi e controcanti che non risultano mai eccessivi o ridondanti; le atmosfere scure e dense come pece, l’incedere lentissimo, trasmettono una sensazione di dramma incombente. Suonerebbero così i Songs:Ohia se sulla loro strada avessero incontrato il De André visionario de La Domenica Delle Salme: si ascolti, in proposito, la narrativa e immaginifica La Nuova Caledonia, che da sola vale l’acquisto di un disco in cui comunque la qualità dei brani non è mai meno che eccellente.
Le atmosfere che disegnano i Campofame sono decisamente diverse, sebbene i due gruppi, almeno per quel che riguarda questa raccolta, abbiano alcuni membri in comune. Fanno un effetto strano, i Campofame. Rispetto a nove anni fa non sono cambiati e proprio per questo dovrebbero sembrarci invecchiati, invece i loro strumentali immobili, cristallini, funzionano come una bolla atemporale, facendo partecipe l’ascoltatore del senso di pace nirvanica in cui sono immersi. Dilatando il post-rock con tocchi frequenti e leggeri, anziché abusando dell’effettistica com’è di norma, il gruppo parmigiano costruiscono un ambiente diafano, percorso da una flebile elettricità, dove tutti gli strumenti, da quelli acustici a quelli elettronici, contribuiscono con pari dignità a raggiungere il risultato. Una riscoperta davvero gradita, bentornati.