Mingle – Static (Kvitnu, 2015)

Viaggia solo stavolta Andrea Gastaldello, in arte Mingle, dopo le ottime uscite in compagnia di Andrea Faccioli e Deison (ben tre dischi nel giro di un anno, tutti di gran livello) e dopo le uscite per Aagoo si accasa alla Kvitnu, etichetta Ucraina transfuga a Vienna a causa della guerra, con all’attivo uscite, fra gli altri, di Plaster e Pan Sonic. Un cambio di scenario che non poteva non riflettersi in modo importante anche sul suono.
Static non è un disco facile da decifrare. Non è evocativo come Everithing Collapse(d) o Weak Life ma batte una strada diversa, che a tratti sembra avvicinarlo a certe produzione degli anni ’90 (evidente in  Conditions e in misura minore in Sevi Lwa) dove l’elettronica preconizzava l’avvento di un mondo nuovo, capace di cavalcare la tigre della tecnologia, ipotesi mai pienamente realizzatasi. Eppure non è nemmeno tutto qui, perché a Static il termine “elettronica” va stretto, dato che l’estrema cura dei suoni confonde l’orizzonte fra analogico e digitale e spesso nemmeno la scrittura è proprie di questo genere: quello che troviamo nelle undici tracce è musica che ha qualcosa del DNA umano ma è evidentemente anche altro. Punti di contatto coi precedenti lavori, specie quelli con Deison, sono inevitabili, specie nei soundscape malinconici del brano d’apertura; ma il suo titolo è Final e una porta ci si chiude alle spalle; con la successiva Afterdark comincia a nascere qualcosa che ha le frequenze di un contatore Geiger, ma le pulsazioni di un cuore, qualcosa che cresce rapidamente e sembra quasi autogenerarsi: brulicante, obbiente a logiche proprie, indifferente al mondo esterno. Nei momenti migliori del disco (tanti. Citiamo almeno Dummies, la prima parte di Sevi Lwa, Too Late, il capolavoro ambient-ritmico di Slow) non troviamo contenuti o immaginari di riferimento; spesso, per lunghi tratti, sembra addirittura non accadere nulla, ma è proprio questa apparente staticità a dare la misura del tutto, di un suono che basta a sé stesso e in questo trova la sua piena realizzazione. È musica che non fa ballare, non trascina, non ci vuole parlare, né si preoccupa di interessarci: non comunica nulla se non la propria esistenza. Quello che possiamo fare, l’unica cosa, è ascoltarla con la stessa attenzione e curiosità con cui l’entomologo osserva gli insetti, creature familiari eppure anche incommensurabilmente aliene. Perchè alieno lo è un po’, Static, che dà forma un cosmo, nemmeno troppo micro, dal quale rimaniamo inesorabilmente fuori, senza che la cosa sia necessariamente un male: quella che ci viene offerta è un’esperienza di puro ascolto quanto mai appagante.