Mattia Coletti – The Land (Bloody Sound Fucktory/Town Tone/Wallace, 2011)

Verso l’opera di Mattia Coletti nutro sentimenti contrastanti: ho amato incondizionatamente ogni suo lavoro in duo, dai Polvere (con Xabier Iriondo) a Christa Pfangen (con Andrea Belfi), da 61 Winters Hat (con Fabio Magistrali) a Falling Birds (con Above The Tree), mentre le cose in gruppo (Sedia e Leg Leg) mi hanno sempre colpito poco. Dei lavori solisti ho molto apprezzato il primo, Zeno, meno il troppo lineare seguito, Pantagruele. Questo The Land segna una decisa ripresa.
Realizzato in totale solitudine, fatto salvo l’intervento di Alberto Morelli in una canzone, The Land mette in fila otto brani dalla struttura simile: il suono cristallino dell’acustica costruisce giri ripetitivi che si sviluppano con minime variazioni dall’inizio alla fine, e dallo sfondo emergono suoni estranei che ne increspano la superficie. È un gioco raffinato in cui la melodia portante sembra a volte meno significativa delle “intrusioni” dell’elettronica e dei battiti sintetici, in una continua confusione fra il primo piano e lo sfondo che dona vivacità ai brani. In effetti The Land è un album fruibile su più livelli, in accordo con le stratificazioni con cui sono state costruite le canzoni. In superficie è un disco di piacevole musica strumentale, che rischia anche una certa monotonia; a un livello approfondito rivela una quantità di dettagli che lo valorizzano, modificandone la percezione. Ne esce un album solo apparentemente facile, che ha i momenti migliori nella seconda metà, con la minimale e toccante Red Eye, l’allegramente confusa Ghost West e la conclusiva A Time Full Of Boxes, col suo finale quasi drone. È infatti nella seconda frazione che il disco si affranca da una certa ripetitività per mettere in mostra come Coletti, dopo aver affrontato di petto la tradizione folk blues nell’album d’esordio, stia ora cercando di evolverla dall’interno con una maggior maturità e cognizione di causa, arrivando già a cogliere i primi frutti.