Lydia Lunch’s Big Sexy Noise – 18/12/10 Latteria Artigianale Molloy (Brescia)

Mi ero messo nell’ordine di idee di sottopormi a una lunga fila a cinque gradi sotto zero per assistere al concerto del gruppo che unisce Lydia Lunch e i Gallon Drunk, invece quando arrivo, poco prima dell’orario d’inizio annunciato, il locale è desolatamente vuoto: conservo la salute ma il quadro è piuttosto deprimente. Vi evito le solite considerazioni sulla sedicente scena bresciana, vi basti sapere che nel corso della serata l’afflusso si porterà su livelli dignitosi, anche se ben lontano da quello che mi aspettavo. Avranno rubato più gente gli Ex-Otago o Ligabue, che si esibivano la stessa sera? Cambia poco. Piuttosto, ha certamente ragione chi mi fa notare che questo sia un concerto per vecchi: ma teniamo botta e questo è ciò che conta.
Quelli che reggono meglio di tutti sono comunque i quattro sul palco. La Lunch sfoggia un vestitino traforato e generosamente scollato, modello segretaria zoccola, i tre accompagnatori sono in divisa da dandy vissuti che ha senso qua come lo avrebbe avuto a Memphis nel ’55 o a Berlino nella prima metà degli ‘80. E a dimostrazione che si fa sul serio e che questi non sono qui semplicemente a timbrare il cartellino, subito dopo la prima canzone la cantante scende dal palco, si avventa sulle persone della prima fila, distanti un paio di metri e le trascina sotto, col resto dei pubblico che si adegua e big_sexy_noise_latteria_bscopre gli spazi alle loro spalle: ora che il contatto è stabilito il concerto può davvero iniziare, con una tagliente esecuzione di Another Man Comin’. È subito chiaro che i tipi non faranno complimenti, restituendoci delle versioni dei pezzi dell’album tutte superiori a quelle incise. Il suono è secco e pesante,  macina tempi medi e dipinge atmosfere metropolitane, prossimo a quello di certe band dei ’90 dove blues e noise coesistevano ed è ugualmente distante sia dal rock’n’roll decadente dei Gallon Drunk come dalla musica malata della Lunch, sebbene lo spirito di entrambi sia ben presente. Servisse conferma, sappiate che la front woman non risparmia niente del repertorio da vecchia zozzona che l’ha resa celebre: whiskey bevuto e sbavato fissando provocatoriamente qualcuno in prima fila, autopalpeggiamenti, pose che di certo erano maggiormente credibili quando era più prossima al peso forma e sguardi voluttuosi che diffondono fra i maschi più prossimi il terrore di venire limonati controvoglia. Ma tornado alla musica, siamo davanti a un gruppo che nell’ambito conosce pochi pari e trasforma il concerto in un rito voodoo, colla sacerdotessa a officiare con la sua voce ormai arrochita, i frequenti spoken word simil-rap e gli altri tre a porre le indispensabili basi per il rituale, con le tastiere e il sax acidissimo di Terry Edwards, lo schitarrare invasato di James Johnston, il drumming secco di Ian White. È davvero un rito collettivo, col pubblico che segue le presentazioni delle sordide storie narrate nei testi e poi partecipa travolto dall’onda della musica, rispondendo colpo su colpo ai gesti e alle provocazioni della Lunch. Come nel convulso finale, con la loureediana Kill Your Sons sugli scudi, lei che punta le dita a mimare un’arma e il pubblico che risponde unanime, neanche si fosse a una manifestazione di piazza nel ’77. Sono concerti così che ti fanno vedere la luce: il rock’n’roll è moribondo e questi figuri gli stanno suonando la marcia funebre; molto meglio che il genere si estingua con tali credibilissimi dinosauri piuttosto che continuare stancamente con gli insulsi gruppi di ragazzini che imperversano oggigiorno credendo di tenere alta la bandiera, mentre sarebbero utili solo per far sapone. Kill Your Sons, appunto.