Lucifer Big Band – Atto III (Bloody Sound Fucktory, 2017)

Dev’essere l’anno della chiusura delle trilogie il 2017: dopo Deison & Mingle tocca alla Lucifer Big Band completare il triangolo iniziato con l’ottimo Atto I nel 2012. Il progetto, giova ricordarlo, è nato dalla mente e dagli strumenti di Angelo Bignamini di The Great Saunites ed è portato avanti con perseveranza nonostante possa essere inserito con pieno diritto nell’infame classifica dei segreti meglio celati della musica nostrana -e dateglielo almeno un mi piace su Facebook, per poco che possa valere!-, anche oggi che certi suoni oscuri e dilatati sembrerebbero godere di un certo hype. La ragione sta forse nel fatto che la Lucifer Big Band ha caratteristiche di non facile codificazione: qui la psichedelia più che un suono è un’attitudine che attinge alle più disparate fonti dell’alterazione musicalmente indotta, sfruttando ora il trasporto delle melodie, ora le potenzialità del ritmo, ora l’alienazione del rumore (qualità ulteriormente accentuate nella versione web dell’album). Proprio sull’ampliamento del campionario punta Atto III e perciò tutto sembra tranne che un addio: tale è la quantità di nuovi elementi messi in gioco che è impossibile non immaginare possibili evoluzioni (e  già questo è, a ben vedere, psichedelia in potenza). Quella che troviamo nel CD è un’unica traccia divisa in sei distinti movimenti i cui titoli (Death, Fall, Waiting Room, Interview, Atonement e Reinaissance) suggeriscono un percorso di morte e rinascita che sembra confermare l’impressione che la fine non sia veramente una fine. Sicuramente è questa la prova meno rock fra quelle che compongono la trilogia, così come la più stilisticamente varia, unificata però dall’architettura di ciascuna delle parti, costituite da un loop sul quale si innestano variazioni che lo fanno mutare lentamente fino al confluire nella sezione successiva. Si parte in un clima orrorifico sporcato di concretismi (che potrebbe andare a braccetto con l’ultimo Adamennon) e si finisce per risvegliarsi in uno spazio aperto pervaso da un’atmosfera rarefatta e livida dove ci muoviamo come al rallentatore; nel mezzo si incontrano dell’elettronica spigolosa e disturbata, dub minimali e dilatatissimi, sax suadenti che si stendono su rumori di fondo, battiti meccanici che inducono danze stranianti laddove, nei primi due capitoli, erano i ritmi tribali e trascinanti a caratterizzare le parti ritmate delle composizioni. Atto III è un album che si prende dei rischi (lo stacco rispetto alle atmosfere precedenti e la disomogeneità stilistica in primis) ma ne esce bene grazie al raggiungimento di una maturità che consente di maneggiare la materia sonora con inventiva e sicurezza. Un ascolto consigliato, in attesa della reincarnazione.