La Morte + Valerio Cosi – 27/04/2014 Santa Maria In Chiavica (Verona)

Una notte di freddo e acqua a catinelle che più della fine di aprile pare annunciare l’inizio dell’autunno, l’Adige gonfio, la città, appena sceso il buio, già semideserta. Cammini sui marciapiedi scivolosi, con le luci della strada tremolanti al vento e l’odore della pioggia nelle narici. Con uno scenario del genere è quasi naturale cercar riparo sotto le volte di un’antica chiesetta… e dentro chi ci trovi? La Morte.
Come ultimo appuntamento stagionale in Santa Maria in Chiavica, ne converrete, non poteva esserci epitaffio più consono, augurandosi, ci mancherebbe, una pronta resurrezione. Il tempo avverso non aiuta e la sala va riempiendosi più lentamente del solito, ma alla fine cento coraggiosi pronti a sfidare tabù e scaramanzia si trovano anche stasera. Ad aprire la serata è Valerio Cosi, occhiali scuri, valerio_cosi_santa_maria_in_chiavica_150elettronica e sax usato con parsimonia, alle prese con la sua personale rivisitazione del verbo kraut dove l’elettronica aggiorna i synth analogici e i battiti sintetici sostituiscono quelli in odore di etno dei tedeschi che sognavano il sud del mondo. Dopo un inizio suadente, con droni sintetici e rapidi inserti di sassofono che cullano la platea, si scivola, fra ritmi sempre più serrati e canti etnici, verso una parte centrale cupa e rumorosa, caratterizzata da volumi crescenti e prepotenti battiti industriali, su cui Cosi accenna addirittura a un balletto. Lo stacco dalle atmosfere e dall’immaginario precedente è parecchio brutale e anche se i pezzi sono ben costruiti, si perde un po’ il filo del discorso, per cui è un piacere ritrovare sul finale i toni iniziali, col sax che prende il sopravvento e si stende placido su un tappeto di sintetizzatori. Per i fumatori c’è giusto il tempo per una sigaretta prima che la strana coppia Gamondi (Uochi Toki) – Succi (Bachi Da Pietra) prenda possesso del palco: elettronica e leggio, a loro non serve altro per portare La Morte dal vivo, un ossimoro che già da solo inquieta. Quello che sentiremo sarà solo in parte ciò che, ascoltato il disco, ci si potrebbe aspettare, perché da subito La Morte ci sorprende (è nel suo stile) sparandoci in faccia delle luci stroboscopiche e nelle orecchie la pubblicità della carta avvolgente la_morte_santa_maria_in_chiavica_2Ubik, per poi investirci con una Caduta È La Carne, declamata con veemenza savonaroliana su uno sfondo di drone e metallo cozzante, che mette i brividi. Quella del racconto di Philip K. Dick (Ubik, appunto) è solo la prima di una serie di incursioni che, fra jingle degni delle peggiori radio di provincia e narrazioni tratte dal libro, si impossesseranno sempre più nella performance, arrivando sul finale a monopolizzarla totalmente. Inizialmente c’è spazio per il Tolstoj de La Morte Di Ivan Il’ič animata da rumori lontani come oscuri presagi, per L’Insolito Commiato Del Signor Augusto come Gaber non avrebbe mai immaginato, attraversato da un vento gelido e rumoroso, o per L’Inferno defecatorio di Manganelli, ma è uno spazio che viene sempre più eroso da Ubik, dalla sue narrazioni liminari e dalle sue musichette idiote, con la morte che si mischia a reggiseni, balsami e condimenti per pasta. Non è un ascolto facile, sia per il tema, certamente il più sgradito in assoluto, sia per la musica, ambient da incubo e non semplice accompagnatrice, che insidia spesso la voce richiedendo un notevole sforzo di concentrazione, ma non lo è soprattutto per la struttura, che alla lunga porta a la_morte_santa_maria_in_chiavica_3sfondare il piano della rappresentazione. Si assiste come in apnea, applaudendo a fatica (chi ha davvero voglia di applaudire La Morte?), a una narrazione in cui le varie parti si assemblano e scompongono di continuo e che nel momento in cui sembra trovare una stabilità, nel monopolio assoluto di Ubik, si dissolve definitivamente. “Io sono Ubik, prima che l’universo fosse, io sono. […] Ubik non è il mio nome. Io sono. Io sarò in eterno”, sono le ultime parole di stasera. A cosa abbiamo assistito, dunque? A una sequenza di brani fra i quali alcuni, per puro caso o calcolo, provenivano da un unico libro? O alla messa in scena di quell’unico libro, del quale gli altri erano semplici accessori? O non si è trattato di una messa in scena? Philip K. Dick, lo sappiamo da alcune sue lettere, credeva che Ubik fosse reale. Forse nemmeno La Morte è ciò che sembra.

Foto: Collettivo C<
Foto homepage: Myrtha Photographers