Any Other tornano con un ep di 4 brani per poco più di 18 minuti di musica che riesce, con la prima traccia, Distratta, ad issarsi sulla questione musica in italiano. Ritmi insieme continui e spezzettati, una voce che è pura umanità ed il torcersi di un cuore e di un corpo che invecchia. Poi un brano in giapponese, Kono Mama de ii, che dimostra come il suono possa vincere su tutto, lasciandoci solo un’aria di accoglienza e sospensione, a temperatura crescente. Lazy gioca in casa, riuscendo a confermarsi come repertorio che porta calore e che conforta come catarsi, musica lenitiva. Per te, che non ci sarai più è un brano ed un ep verso chi non può più sentire e che riesce a connettersi con tutti coloro abbiano avuto una perdita, unendo sentimenti ed anime con un suono che continua ad essere fra i più interessanti in circolazione.
Non conoscevo l’operato di Piezo, al secolo Luca Mucci, già boss di ANSIA ed attivo da anni fra Bristol e Milano ma di origine marchigiana. Su Haunter Records ci trascina con 6 brani in una notte dove i beats sono oscuri e gommosi ma il suono sembra essere una membrana protettiva. Insieme a Daniele De Santis esplora angoli discosti fra tradizioni, polveri fini e suono elettronico ed in generale sembra essere una versione asciutta e cruda di certi suoni di ArteTetra. Poi ritmi dritti, sognanti e colanti, l’impressione che possa sempre succedere qualcosa, amore e morte come in un Blade Runner al quadrato nella Death Is Not The insieme a LOREM, per finire con le evoluzioni plastiche di una Foreground (dub) ancora una volta preziosa.
Baby Volcano torna con un nuovo ep che la vede partire con il suo ultimo singolo Knock Down nel quale la suiza-guatemalteca gioca fra beats digitali ed un rapping colloso ed acido in ispanico idioma. Poi la voce si trasforma in tossica e vaporosa, in una Caralesh che si rivela lesiva. In Delish i beats volano come fossero liane elastiche e la giungla intorno ma Bany Volcano e in grado anche di svelarci un lato più intimo con una Kurakaku che ci accarezza come un ricordo di un’infanzia lontana. Con Olor a fogata si chiude questa tappa, a dimostrazione di un’artista che sa esprimersi su diversi registri trovando sempre la via più giusta per smuoverci muscoli e tendini.
Inizia con un motorik groove incessante La Bambina e i mostri di Giacomo Biancalana, d’ora in poi LF_ladlefurnace
Prodotto dalla Seahorse di Paolo Messere ci rituffa in una wave bagnata di Faust’O, Francesco C e drammaticamente morganiana. Inquietudini di serie B, taglio thriller senza un cent di budget, dichiaratamente bis. Il livello, per chi apprezza il meló, non è malvagio anche se forse macchia più di incidere o tagliare. Il crinale sul quale si muove è talmente sottile che varrebbe la pena vomitare il pranzo con l’etichetta sul tavolo imbandito invece che ammansirci. Il suono è buono ma manca la scudisciata, Henry che impazzisce suonando il piano per rimanere nella poetica rossiana. Ma LF va dritto per la sua strada e potrebbe anche aver ragione lui, che l’acqua cheta rovina i ponti, come sappiamo tutti.
Martina Lussi crea, per l’ottava edizione della Biennale di Weiertal una passeggiata sonora che dalla stazione di Wülflingen ci trasporta all’entrata del padiglione adibito. Si parte accompagnati da suoni di quel che sembra un ruscello, per poi arrivare ad un’apertura luminosa, dove L’incedere sonoro sembra allacciare terra e cielo mentre i sospiri ed i passi di Martina si fanno più concreti, accompagnati da un vento lontano. Poi suoni che ricordano videogames di passaggio ed ancora passi, è difficile immaginarsi quel che possa accadere, soprattutto perché sappiamo che non accadrà nulla al termine di questo ep, non ci sarà nessun padiglione né sorpresa ad attenderci. Non ci resta quindi che goderci questo sonoro ronzio rintoccato, che sembra riempirci l’anima e che potremmo lasciare fino al termine di una splendida Spaziergang. Ma c’è da far attenzione alle auto, al rimbombo delle chiacchiere dei genitori e dei figli, al fiume, ad un mondo che continua a vivere e che ci include, in perenne movimento come noi, da Wülflingen a Weiertal.
Ben Chatwin da anni imperversa sugli incidentati sentieri di un suono che oscilla fra il cinematografico e l’ambiente e con quest’ultimo Klasis si districa fra quattro brani che ne confermano la bontà. L’incedere di Ben Chatwin è dritto, quasi un fuso attorno al quale si muovano e si districhino propaggini di diverso tipo, di norma beats e bave laterali, ma in Trough The Prism preferisce semplicemente far volare gocce di pianoforte ed accordi di chitarra in un viaggio buio, mentre Klast si fa forte di un’enfasi cinematica. Un lavoro che conferma quanto di buono fatto da Ben Chatwin e che forse servirà da ponte per qualcosa di più esteso da ascoltare, ma la concisione può essere anche un fattore positivo, anche se in questo caso il risultato ci risuona per qualche minuto fra le orecchie respirando fra le immagini in movimento.
La lionese Arsenic Solaris ci porta in dote due split in un edizione da 250 copie in vinile doppiamente colorate che riescono a coprire ogni nostro sogno, considerando che sul primo di essi trovano spazio sul primo lato gli Ovo e sul secondo Mai Mai Mai. Dopo un’introduzione oscura la coppia di Bruno e Stefania si rifà sotto con un’insieme di rantoli e per la prima volta nella loro storia l’utilizzo di testi in italiano. Bizzarro dirlo e per nulla evidente percepirlo, ma dai titoli si alza la soglia di attenzione e si percepisce in Scavo un nuovo intento di comunicazione. Forse ancor più bestiale considerando come possa farci più paura qualcosa che comprendiamo ma è elaborato in maniera del tutto singolare. Stefania Pedretti in Orizzonti Infiniti sembra altra, magnete magico che ipnotizza ed affascina. In Hollywood è traccia interlocutoria che tramite il sampling ricuce in materia sinora brandelli, quasi come l’orrida figura in copertina e che, evitando accuratamente le note di copertina, non sapremo a chi abbinare fra i due progetti. L’Affascino ripulisce dal malocchio l’unione e permette a Mai Mai Mai di esprimersi in maniera terrena e coesa con quanto fatto da Stefania e Bruno, svelando come forse non mai le affinità tra due dei progetti di punta dell’esplorazione sonora in Italia. Il brano si conclude con il picchiettare della pioggia su di un tetto ed è lo stesso suono a condurci in un rituale di trance guidato da Maria Elisabetta Ratti, madre di Toni Cutrone e medium spiritica..un mood vaporoso e sudato, come se le presenze potessero semplicemente esalare i loro respiri attraverso i corpi ed i suoni. Le parole, le atmosfere, gli ambienti, il tutto è rinchiuso dentro ad un microclima quasi insopportabile, lattiginoso e sudaticcio, che inquieta e da un fascino magico e malato a questo splendido incrocio.
Da Padova tornano i Wojtek con un carico di quattro brani di hardcore massiccio e particolarmente mobile, con delle linee vocali, profonde e comprensibili anche se a tratti danno l’impressione di essere in qualche modo didascalici. Nei quattro brani c’è tutto, forse anche troppo, in un flusso sonoro che si fa maggiormente interessante quando varca i confini e finisce nel teatro canzone di Veleno D’Ombra ma che spesso ci ricordano un certo peso. La sensazione è che i brani vogliano dire e contenere troppo, così che i momenti belli rimangano sfilacciati all’interno di un corpo che abbia bisogno di più rigore.
Specchio è una bella chiusura ma sarebbe stata perfetta fosse durata 4 minuti, le scelte della band la portano in 7:36 a perdere gran che della sua lama, toccherebbe un discorso con il produttore in questo senso.
La Skin Graft è in rampa di lancio e ci offre su un piatto d’argento uno split fra i francesi Pili Coït (qui coadiuvati dai Les Exocrines diventando a tutti gli effetti una big band di 8 membri) e gli statunitensi Yowie, colti in una mutazione di line-up che vede impegnati all’oggi Defenestrator, Daniel Kennedy e Jack Tickner. Karseh è da subito ciò che chi è cresciuto a post-punk e Sun City Girls vorrebbe ascoltare in auto al mattino, la voce di Jessica Martin Maresco accarezza e sferza portandoci qua e là per il globo, in quel che si potrebbe chiamare il lato A fertile. Musiche che raccolgono a sé le esperienze strappate con le unghie alle terre mescolandole ad un’apertura Noise e free tale che gli schemi possano felicemente sfasciarsi.
Per il giusto bilanciamento gli Yowie ci regalano tre brani tratti da due live differenti, fra i quali passano addirittura 21 anni? Potrebbe sembrare roba raccogliticcia per raggiungere il minutaggio ma in realtà qui non c’è nulla da scartare, trattandosi di cotica che trasuda visioni hardcore sul cadavere degli Us Maple. Il suono non è mai però estremo, anzi, risulta quasi essere un ribollire continuo, calderone nel quale le parti in gioco vengono smembrate e fatte andare a fuoco allegro, mantenendo croccantezza e vivacità. Capacità tecniche bestiali, storture e brio. Chiudendo gli occhi sembra di percepire gli incroci e gli sguardi di tanta brutalità arzigogolata. La “vecchia” Tara suona ancor più appuntita e sporca, nervosa, come poteva essere la Chicago del 2003.
Loneriver è folksinger sofferto ed intenso, che con Marco Fasolo in studio riesce ad ammansirci trasmettendo stile ed eleganza. È musica soffusa quella di Alessio Lonati (una delle teste del T.U.P. studio a Brescia) che mischia indole psichedelia ad un pop ricercato, riuscendo spesso a trovarle e le quadrature del cerchio. È musica dolce, che lenisce e commuove senza perdere profondità e zone buie, che ad ogni ascolto si incatena al nostro cervelletto ed al nostro cuore, rimanendo ben lontano dal tentativo ruffiano di fare la cosa grossa ma trasmettendoci la medesima sensazione di quanto ricevuto con Michele Ducci. In Italia esiste una gran musica di pop / folk / rock angolofono che potrebbe, volendo, fare un gran bel salto.
Abbiamo aperto con Any Other e chiudiamo con Tutto Piange, che da Marco Giudici è stata registrata e da Adele Altro prodotta. Una voce toccante, una chitarra ed i suoni della pianura dietro di sé, in una Non è divertente che ci strega e ci dimostra di come in questi ultimi tempi il ricambio generazionale su certo folk-pop in Italia stia andando benissimo (ricordiamo Olympia Mare ed Arianna Pasini lo scorso anno ad esempio). I brani vengono sciorinati con leggerezza anche se dentro c’è una vita e la tentazione è quella di schioccare le dita (o, per me medesimo di muovere il piedino considerando che sto scrivendo) e godersela tutta. Bagno è di una bellezza elementare e schietta, Polo vorremmo tenerla lì sulla scrivania o sul cofano a tenerci compagnia. Se poi penso alla bellezza di Una cosa da raccogliere…ma che fai? Piangi?
Naah, mi è entrata una cassetta ricamata a mano nell’occhio!