Torna Jocelyn Pulsar, creatura forlivese che in anni di onorata carriera ha nuotato con stile personale nel cantautorato indie lo-di spingendosi in queste 4 canzoni senza atmosfera in una casa post-separazione. Slanci emotivi, visioni cult notturne, letture del presente, la perenne sensazione di un’onestà che pervade una canzone italiana in bassa fedeltà che ha tutte le ragioni per resistere ancora per anni. Musica colloquiale ed intima, mai greve e sincera, melodiosamente abbozzata.
La grandezza della musica credo si riveli quando riesce a far passare un messaggio od un’emozione anche senza che l’ascoltatore abbia tutte le informazioni per rilevarlo. Si incunea lì, tra il conscio e l’ inconscio, affascinandoci. Così avviene con Some Time Spent Here di John Lee Bird, puppetmaster e voce narrante del tempo che passa su una leggera bava di suono della quale si occupa Fabrizio Modonese Palumbo, tra respiri, cigolii e la sensazione di un tempo che non rientri più nei nostri canoni di calcolo, dilatandosi in una vita intera come negli ambienti di una casa abbandonata. Si rifà alla pellicola All Of Us Strangers di Andrew Haigh (tratta dal romanzo Estranei di Taichi Yamada) che non ho visto ma che se rinforza il senso di sospensione di questo brano sarà di certo in grado di strapparci il cuore. Il seguito è dannata narrazione sonora nella quale perdersi, vivendola come puro suono o cercandone significati esposti, in una splendida unione fra verbo e suono.
Laila Al Habash torna a tre anni dal suo album Mystic Motel con 5 brani strutturalmente pop, pieni dove predilige un’espressività meno raffinata e più diretta. Potenziali singoli a iosa, con il rischio però di ritrovarsi codificata in uno stile che mette in risalto solo un lato della natura di Laila. Ma è solo al primo giro, prima di farsi irretire da una voce e dai movimenti melodici di una voce che riesce a giocare ed a scegliere quanto del proprio io svelare, proprio come una vera artista deve fare. Cartagine è pura seta e siamo convinti che l’essere sorpresi è comunque meglio dell’ennesima sicurezza, per questo aspettiamo il prossimo disco di Laila certi che sarà ancora uno step oltre.
Il Quartetto Loco è creatura dei fratelli Nicolò e Simone Bottasso insieme al clarinettista catalano Oscar Antoli ed allo svizzero Bo Wiget ed insieme escono dal selciato della musica tradizionale e da quella jazz per immergersi in un mondo di improvvisazione emotiva, dove gli strumenti della tradizione trasfigurano sentimenti ed arie in costumi nuovi. Avendo visto la coppia piemontese (violino e organetto i loro arnesi in questo caso) in un contesto di composizione spontanea e comunitaria come lo scorso Building Bridges non stupisce di sentire con quanto calore l’insieme riesca a scardinare l’assioma tradizionale-popolare. In questa occasione andando a dipingere tele di una libertà che parte da note e vicende comuni per prendere il volo.
Quando poi Bo parte dallo yodel per aprire una circospetta De Morgetaler che va via via ampliandosi sui toni strumentali più acuti ci si emoziona sul serio, con il mondo della composizione classica che si apre all’agreste. Poi impro aerea fino alla picchiata, balletti sulle punte di 530 minuti e la sensazione di sentirsi all’interno di una fiaba che nella conclusiva Mantra diventa via via più
acida e psichedelica, delizia vera che torna all’ovile della tradizione concludendo in bellezza.
Cantautorato folk che non ha paura di partire dalla tradizione più orecchiabile e canterina per cinque brani di libertà ed amore. Alan Albertoni credo abbia bisogno di una piazza, forse anche di un fiasco di rosso per esprimersi al meglio, ma quano lo fa centra il bersaglio. Il servo Alfonso e la moglie Luisella in una rivoluzione dovuta, l’amore espresso con finanche troppo zucchero in Venice Beach, ma l’andamento sleazy dell’incompreso e l’ode a Madame Libertà ci fanno ben sperare per il futuro.
“Diego,tu che sai come fare*,mi fai una rece sul nuovo EP dei Seefeel?”
(*: pura invenzione mia di narcisismo e di cialtronismo)
“Ma veramente Vasco io volevo parlare con te milanista del derby di domenica prossima…”
“Tu uccidi un uomo morto… parlami dei Seefeel ti prego..”
“Guarda, io di loro ho sempre preferito il loro progetto”parallelo” Scala, ma questo EP e’ assolutamente godibile, non suona per nulla vecchio come potrebbe essere visto da dove arrivano,non sono proprio sbarbatelli..
E ti diro’ di piu’…”
“Dimmi dimmi”
“Ti porta con la mente in luoghi sospesi tra cielo e terra. Tipo quello che avrebbe voluto fare Jon Hopkins col suo nuovo lavoro che invece trovo abbastanza piatto e troppo derivativo, sembra quasi un tributo a Jean-Michel Jarre… ma soprattutto tipo…”
“Tipo?”
“Tipo noi interisti dopo aver preso coscienza del quinto derby vinto su cinque l’anno scorso”
“Diego,mavaff
PS: Inter – Milan 1-2
Dalla Nuova Zelanda tornano i Doggerland, terzetto che in un paio d’anni è riuscito a mettere in circolo un suono sofferto e melanconico, spleen indie rock. Lasciando le parole a casa si prendono tutto con la prima parte di June, roba che tocca tirar fuori i santini bostoniani, per poi cantare insieme a loro, insiegabilmente intensi senza perdere in levità.
Quando poi la buttano sull’acustico non fanno prigionieri, snocciolando una Dump No Waste, Flows To The Sea che ha tutte le carte in regola per diventare uno dei pezzi coi quali torturarsi il cuore e chiudendo un dischetto che è praticamente un regalo perfetto per l’autunno.
4 brani per l’esordio degli Ik, progetto che vede al suo interno un membro dei fantastici ticinesi Viruuunga ed unione dei singoli usciti negli ultimi due anni.
Qui il suono si fa più meditabondo e scuro, una voce bassa che richiama una sorta di crooner in Breathe and Resist mentre il suono si muove su coordinate paludose. C’è una sorta di viaggio che smuove dall’intero Reverberate, un convivere con il dolore che con gli ascolti avvolge sempre di più. Atlantic con la sua voce recitata ed i pochi elementi colpisce per la sua forza mentre Strangerland vira verso un afflato soul evocativo. Cresceranno…
Ed anche per questo mese è tutto, l’estate è finalmente finita, buona camicia di flanella a tutti.