Matteo Berghenti l’abbiamo incontrato nei Lady Vallens, duo di Parma che divide con un membro dei Lourdes Rebels; in Konakon invece il suo partner è il computer e dico sul serio, perché alla macchina viene lasciato un discreto spazio creativo. È questo un progetto che si avventura nei territori della musica autogenerata, una zona liminare al contempo affascinante e inquietante dove la composizione si confonde con la programmazione e l’improvvisazione con la casualità. Se siete cresciuti guardando Terminator l’idea di lasciare questa libertà alle macchine vi farà correre qualche brivido sulla schiena ma in realtà esse hanno facoltà di muoversi solo entro ben determinati limiti, stabiliti dai parametri impostati dal musicista/programmatore che si preoccupa altresì di creare gli strumenti virtuali dei quali il computer potrà servirsi. Può sembrare complicato – tecnicamente probabilmente lo è – ma il risultato ha più a che fare con l’accettazione della casualità e la curiosità per il prodotto che non con il maniacale controllo volto al raggiungimento di un preordinato obiettivo, attitudine che verrebbe naturale associare alla musica elettronica. Ammetto che se non avessi conosciuto le premesse avrei tranquillamente scambiato questo disco per un prodotto totalmente umano e la cosa può essere letta sia come un pregio – se vedete di buon occhio l’intelligenza artificiale che pareggia la nostra – che come un difetto – se la cosa vi sembra ne confermi la superfluità; quel che è certo è che le premesse hanno cambiato le carte in tavola facendomi ascoltare con orecchio diverso, direi più indagatore. Il compito non è inizialmente facile: il brano che dà il titolo all’intero lavoro è un monolite di quasi 40 minuti ben poco monolitico in realtà, passando senza soluzione di continuità da veloci parti ritmate a distese di droni, da complessi battiti free a cascate di noise granulare, fra elettronica contemporanea e suggestioni industriali. Qui il computer ha creato, attraverso gli strumenti virtuali, il tappeto di microsuoni (onde sonore, stridiii, glitch) sul quale il musicista ha appoggiato la sua composizione di moog, campionamenti e field recordings. Diversi mmomenti sono felici, ma la brevità delle sequenze rende l’ascolto piuttosto impegnativo. Più lineari e per questo più adatti a far cogliere l’ida che anima il progetto i due brani successivi (che comunque sfiorano entrambi il quarto d’ora). Piano Loop, poetico e molto riuscito, è appunto un loop di pianoforte che ad ogni giro perde qualche nota e a cui si aggiungono, a mo’ di compensazione, rumori (fischi, noise, droni) che a tratti rischiano di sommergere la musica; il più delle volte comunque si limitano a disturbarla, non senza una certa grazia che difficilmente si attribuirebbe a una fredda macchina. Binaural è il brano concettualmente più sperimentale, che parte da un sistema con sinusoidi a frequenze leggermente differenti tra loro per generare dei poliritmi inizialmente ben distinti e via via sempre più serrati e indistinguibili dai droni che si agitano sullo sfondo, fino a giungere a fondersi con loro: è qui che il sistema di programmazione (per la cronaca il Max/MSP) rivela forse la sua funzione più peculiare e difficilmente replicabile. Non è facile dare un giudizio su un simile lavoro e francamente fatico anche ad avere un’opinione. Questa è musica autenticamente di ricerca, dove l’ascolto non può dissociarsi da tutta una serie di riflessioni che vanno al di là della questione dei genere o stile e finiscono per toccare il nostro rapporto con la tecnologia. Konakon è comunque già oltre: le risposte le ha trovate e cavalcando la tigre è passato alla pratica.