L’impressione, ascoltando il secondo album dei King Hannah, è quella di ritrovarsi di fronte ad un assortimento di scatole cinesi, marchiate USA ed UK.
La coppia formata da Hannah Merrick e Craig Whittle gioca infatti su una poetica prettamente statunitense, in maniera non dissimile da quanti fecero anni fa Rolling Stones o Jesus & Mary Chain, uscendone con stile e lucidità. La voce sembra sempre sul punto di poter iniziare delle fusa da un momento all’altro mentre l’impianto sonoro risplende, come pagliuzze dorate baciate dal sole. C’è quel sentore cangiante del velluto, la delicatezza della seta, il luccichio delle gemme in un gioco di seduzione e di auto affermazione. Accenni di nervosismo in una Milk Boy, effluvi di miele e cuore aperto nella purezza country di Suddenly, Your Hand. Bristol è ormai solo un ricordo lontano, si sceglie saggiamente di giocare un altro campionato, Sharon Van Etten a baciare due brani, lunghe code strumentali a raggiungere tramonti brucianti, lo spettro del deserto poco lontano. Somewhere Near El Paso sembra essere sospesa, quasi una presenza fantasmatica che si prende il centro del disco, perno che ruotato crea un effetto caleidoscopico, fra calore ed intensità in crescendo, fino ad un’esplosione che sembra avere in volto il ghigno sardonico di certi rettili a sangue freddo. Poi il viaggio si alleggerisce, Lily Pad e Davey Sad sono perfette pillole pop-rock, in equilibrio fra finezza compositiva e ruvidezza sonora, ad ampliare le frecce nell’arco di Hannah e Craig. Scully più che un brano è uno splendido headbanging al rallentatore, mentre il ritorno di Sharon Van Etten dà a This Was Intentional le sembianze del lupo travestito da agnello. Non è tutto oro ciò che luccica, nonostante il sogno americano sotto il deserto dei King Hannah ci sono focolai molto, troppo umani. Ma non importa, nonostante tutto il pollo è nel forno, se vuoi puoi unirti a me e John Prine alla radio mi fa sentire bene.
Proprio l’effetto che i King Hannah fanno a noi.