Dei Karate sappiamo più o meno tutto, ed il ritorno dopo l’utimo album Pockets (dopo ci fu molto altro, vero, ma…) ci fa indossare le cuffie con una discreta curiosità. A livello sonoro i bostoniani si dividono grosso modo in due fasi, una prima dove con tre album (quattro, calcolando la prima autoproduzione su nastro) hanno segnato in modo distintivo una visione crepuscolare e toccante di un mondo emo-core, post-rock e slow core, pur risultando coevi ad una stilistica indie-rock, prima che certo jazz se li portasse via. Tante sigle, generi, ma diciamocelo, i Karate di quei tre anni erano solo loro, riconoscibili e distintivi di un suono, un immaginario ed una musica.
Sciolti nel 2005 Jeff Goddard, Gavin McCarthy e Geoff Farina tornano dopo 17 anni. Ancora diversi?
Ma ascoltando Make It Fit a tratti riappaiono certi slanci, una doppietta come Cannibals e Liminal soprattutto, dove la voce di Geoff Farina ci riporta in quel tempo. In qualche modo questo disco è il segno di una loro maturità e di una continuità su un certo suono globale, che abbraccia tutta la loro carriera. Un reggae rock sbarazzino come Rattle the Pipes dove sembra di tornare ai Police degli anni ’80 riconoscendogli la capacità di lanciarsi su qualsiasi campo vogliano. I Karate sembrano in forma ed elegantemente dimostrano di essere ancora in grado di toccare un pubblico che è maturato con loro ma che, diciamocelo, avendo aperto le orecchie anche a progetti coevi, su certe scelte jazzate avrebbe progetti più brillanti ai quali affezionarsi. Se invece parliamo di brani dove la spinta karateka appare più marcata, l’insistita Around the Dial con i suoi chitarrismi o la uptempo People Ain’t Folk. Ascoltando l’ultima Silence, Sound con mia figlia ormai sveglia ed attiva al mio fianco (sono le 07:24) ragiono su un paio di cose: i Karate sono e sono stati in grado di scrivere brani bellissimi e Make it Fit ne contiene qualcuno. Le reunion continuano a non piacermi, nonostante siano portatori (a volte) di bei suoni. Dei Karate continuo a preferire i primi tre album e se ritrovassi la mia t-shirt di The Bed is in the Ocean non potrei comunque indossarla se non come pigiama.
Vita grama, qui come a Boston, questa è la mia su un album che non smuoverà (credo) nessun ascoltatore nuovo ma che se servirà a ripercorrere una strada come quella lasciata dai bostoniani beh, avrà fatto il suo.