K’An – Anima (Ōnyūdō, 2013)

È un esordio che lascia il segno quello del romano Paolo Bellipanni, ispirato e ricco di riferimenti ma non facilmente catalogabile. Il nome scelto, K’An, un esagramma Ching che significa “l’abissale”, ci dice qualcosa circa l’umore che pervade l’opera, ma ci dice molto anche sulla sua profondità e sul lavoro necessario per assemblarla, un lavoro di scavo interiore.
Sebbene nel comunicato stampa vengano citati nomi di alcuni artisti che hanno influenzato la genesi del progetto (Fennesz, Tim Hecker, Aidan Baker, Ulver) la lunga gestazione (K’An parte all’inizio del 2011) ha confuso le tracce, consegnandoci un lavoro che si mantiene equidistante dall’industrial esoterico, dall’ambient (piuttosto dark) e da rovine di architetture warpiane, seguendo coordinate proprie e una propria, precisa personalità. Non inganni il titolo, questa non è eterea musica celestiale, sembra suggerire anzi una discesa lungo meandri oscuri, come a rispolverare l’idea biblica di unità fra anima e sangue: dopo una partenza tutto sommato ariosa, il suono, nella quasi totale assenza di ritmi, si fa via via più cupo, fra droni materici intessuti di rumori concreti, filed recordings, inserti di strumenti a corde, ora malinconici, ora furiosi (come nella chiusura, che rasenta il black metal atmosferico, del brano eponimo). Caratterizzante è il ruolo chiave ricoperto dalle voci: cori austeri e sacrali, montati in loop e organizzati in crescendo, portano all’elevazione spirituale (The Tree In The Garden Of Limbs) e subito dopo atterriscono evocando oscuri presagi (The Gathering), suggeriscono sensazioni di pace (In A River Of Thorns You Mean The Path To Deliverance) e prorompono in esplosioni liberatorie (la seconda parte di Altars). Proprio Altars, coi suoi oltre 14 minuti, rappresenta la traccia più rappresentativa, quasi la sintesi di tutte le atmosfere di un album che comunque va fruito nell’insieme per poter essere pienamente goduto; per farci percepire tutto il peso dell’anima.