Se c’è qualcosa che mal sopporto è il recupero, la reunion, il postumo artistico.
Johnny Cash ci ha lasciati con June Carter più di 20 anni fa, dopo una vita di picchi e di cadute, di musica e poesia, di amori e di vizi.
Tutto si è letto, scritto, visto ed ascoltato di Johnny Cash, quindi la prima domanda a venirmi alla testa è: perché?
Perché reiterare la presenza di un vero e proprio classico, con un album intero di canzoni che finora non avevano mai visto la luce?
Ognuno ha le sue canzoni di Johnny Cash, i peggiori solo tre-quattro, altri decine, ma non ci sarà il tempo di affezionarsi a questi ultimi undici brani perché ci riportano a tempi che ormai non ci sono più.
Sarò spietato ma questi sono dischi che non andrebbero fatti, insostenibili emotivamente e che vanno a scalfire dei veri e propri miti che andrebbero lasciati riposare in pace. Questi sono brani che precedono di poco l’incontro che Johnny ebbe con Rick Rubin e che il giusto lustro diede all’ultima fase della sua carriera. Sono brani toccanti, spesso splendidi, con arrangiamenti e presenze che si sente sono gestiti con il cuore dal figlio John Carter Cash.
Tutto onesto, di cuore, ma profondamente non amo questo rimescolamento. Mi chiedo, Johnny avrebbe voluto pubblicare questi brani non avendolo fatto a suo tempo?
Non lo so, non sta a me dirlo, il mio ruolo mi impone probabilmente di comunicarvi se questo disco sia più o meno buono e lo è, certo che lo è, c’è Johnny Cash, tutto il corollario e le canzoni sono spesso ottime.
Però non è un disco che acquisterò ne che consiglierei, vi imboccherei piuttosto quel che sta facendo Willie Nelson con il suo repertorio dei ‘60, collaborando intanto con nuovi pupilli quali Orville Peck. Sono scelte, quelle di vivere il presente, che sento più consone, anche se già so di tirarmi gli strali di molti con questa presa di posizione.
Johnny Cash – Songwriter (Mercury Nashville, 2024)
