Johnny Mox – Obstinate Sermons (Woodworm/Audioglobe, 2014)

Ci sono voluti due anni al reverendo Johnny Mox per dare fare uscire il nuovo disco, ma sono stati anni intensi, punteggiati di esibizioni e da incontri, il più importante di tutti quello coi Gazebo Penguins che ha portato alla nascita di un singolo, Santa Massenza, che allora sembrò interlocutorio, ma che invece, è evidente, ha lasciato il segno: Obstinate Sermons è qui ad indicarci la nuova via.
L’inizio di They Told Me To Have Faith And All I Got Was The Sacred Dirt Of My Empty Hands, con la voce declamata, il battimani insistito e i loop vocali sembra far a intendere che poco sia cambiato dal precedente We=Trouble, ma le chitarre veementi che irrompono a 2:00 ci dicono che non è così: la sbornia rock non è passata e non è necessariamente un male, dato che il pezzo spacca e sembra perseguire un’idea di evoluzione attraverso la contaminazione di generi e stili che già era nel DNA nell’esordio. Peccato che, nel prosieguo, la dichiarazione d’intenti espressa nel breve spiritual A War Sermon (“Trouble I was and trouble I’ll be”) rimanga in buona parte sulla carta, consegnandoci un lavoro meno spiazzante rispetto al precedente, battagliero e adrenalinico ma rinchiuso all’interno di una formula troppo risaputa. Il rock, variamente declinato nel corso dell’album (una Praise The Stubborn che chiama quasi in causa l’industrial-metal dei LARD, l’hard blues di Ex Teachers, l’hardcore di O’ Brother, il r’n’r spigoloso The Winners), monopolizza la scrittura normalizzandola e imponendo una forma codificata all’interno delle quale i vari loop e inserti gospel diventano elementi accessori utili ad arricchire la formula e a giocare sui contrasti, ma incapaci di contribuire al genuino caos organizzato che era la forza del disco precedente. Il paradosso è che Obstinate Sermons è un album senza evidenti debolezze e coerente in sé, ben suonato e cantato (Mox è riconoscibilissimo e perfettamente a suo agio anche in queste vesti), che piacerà e dal vivo darà paga a molti rockettari; quello che manca è la vena dissacrante, meticcia e ricca di negritudine che ci aveva fatto amare l’inetichettabile predecessore e che qui emerge solo a tratti, in particolare nel folk scuro di The Long Drape, che rimanda all’EP Lord Only Knows…, e nel lungo mantra King Malik. Potrà sembrare ingeneroso leggere questo disco alla luce di quello passato, ma è il rischio che si corre quando si sforna un capolavoro; L’impressione, in definitiva è quella di uno sbiancamento alla Michael Jackson che attutisce parecchio la carica eversiva: a noi il reverendo piace più negro e soprattutto più problematico.